Omelia (19-04-2009) |
mons. Roberto Brunelli |
Se non vedo non credo La prima domenica dopo Pasqua, che meglio si denomina "seconda domenica di Pasqua" (in quanto la Pasqua è tanto importante, che idealmente la si celebra come unica festa prolungata sino all’Ascensione), era detta un tempo domenica "in albis" (che sta per "in albis depositis": era il giorno in cui i primi cristiani, che avevano ricevuto il battesimo la notte di Pasqua, deponevano la simbolica veste bianca portata per otto giorni). Per volontà del papa Giovanni Paolo II, questa è ora denominata "domenica della Divina Misericordia", per ricordare che i fatti pasquali appena celebrati (la Passione e la Risurrezione di Gesù) sono i segni, anzi la suprema espressione della bontà di Dio verso di noi. A proposito del papa, oggi ricorre l’anniversario, il quarto, dell’elezione dell’attuale, Benedetto XVI. Ma al di là di tutte queste memorie, oggi è in particolare la domenica di Tommaso. I fatti sono noti. Il Risorto si presenta agli apostoli, vince il loro stupore mostrando le piaghe delle mani e del costato e, quando li vede gioiosi per averlo ritrovato vivo, dice: "Pace a voi. Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi. Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati". Sono parole brevi ma di significato densissimo, su cui tuttora poggia in larga misura la vita cristiana; parole forse non ancora del tutto esplicitate nelle loro conseguenze, e in ogni caso meritevoli di un commento più ampio di quello possibile qui. Anche perché le incalza il seguito, che al normale lettore dei vangeli appare di più forte impatto. Quell’incontro tra Gesù e i suoi apostoli avviene il giorno stesso della risurrezione, al tramonto. Dal gruppo è assente in quel momento l’apostolo Tommaso, il quale, quando in seguito gli altri gli riferiscono l’accaduto, si rifiuta di credere: "Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo". Otto giorni dopo, quindi come oggi, "i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e (...) disse a Tommaso: Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!" Tommaso, possiamo immaginare stravolto da un’esperienza senza pari, risponde con un’esclamazione che dice tutto: "Mio Signore e mio Dio!" E Gesù conclude con uno sguardo al futuro: "Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto". Queste ultime parole riguardano gli uomini dei secoli a venire, sino al presente. Dopo gli apostoli, le pie donne e pochi altri che hanno fatto esperienza diretta del Risorto, l’hanno visto e ascoltato e toccato, hanno camminato e mangiato con lui, tutti i successivi innumerevoli cristiani si sono riconosciuti nella condizione di chi non ha visto eppure ha creduto. Vedere, toccare, misurare, calcolare, sperimentare, sono verbi che esprimono l’atteggiamento dello scienziato: rispettabile, anzi lodevole, ma altro, rispetto all’atteggiamento di chi considera le realtà trascendenti. Qui le "prove" sono d’altro genere; la fede si deduce dagli effetti che produce; in fatto di fede, ciò che si vede e si tocca è solo un segno di ciò che, di natura sua, non si può vedere né toccare. Non si può: e sta forse qui la motivazione di quanti, con i giochi infantili basati sui cinque sensi, lasciano anche la fede, scoprendo che i sensi non bastano a motivarla. Bisognerebbe spiegare loro che la fede infantile, giustamente abbandonata, non va confusa con una fede adulta, che non vede e non tocca ma motivazioni per credere ne ha quanto basta e avanza. |