Omelia (26-04-2009)
Il pane della domenica
Cristiani laici: testimoni del Testimone

Il Cristo doveva patire e risuscitare dai morti il terzo giorno

C’è una parola, anzi una frase che è risuonata due volte nei brani delle sante Scritture appena proclamate: è la parola testimoni. La parola l’abbiamo sentita dalle labbra di Pietro, nella sua seconda uscita pubblica, dopo la Pentecoste, quel giorno a Gerusalemme all’ora nona, mentre il paralitico guarito presso la porta del tempio detta Bella continuava a correre euforico e a saltare come un cerbiatto eccitato: "Voi, uomini d’Israele, avete ucciso l’autore della vita - proclama il primo dei Dodici - Ma Dio lo ha risuscitato dai morti e di questo noi siamo testimoni" (1ª lettura). Quest’ultima espressione l’abbiamo ritrovata pari pari nel vangelo - tranne il cambio del soggetto, dal noi al voi - rivolta dal Risorto agli Undici riuniti nel cenacolo la sera di Pasqua: "Di questo voi siete testimoni".

1. Questa perfetta comunanza di linguaggio tra il Signore uscito vivo dal sepolcro e il primo dei testimoni, Pietro, è sintomatica: tra i due, infatti, non era stato sempre così, anzi, proprio nel momento in cui Simone di Giovanni era andato più vicino al mistero del Maestro, a Cesarea di Filippo, confessandolo Messia e Figlio di Dio, proprio quel giorno, appena dopo essere stato da lui solennemente dichiarato come la roccia di fondamento della futura Chiesa, il figlio di Giona era stato sonoramente sconfessato con quelle parole terribili, che Gesù non aveva mai pronunciato per nessuno, se non per il Tentatore: "Vattene via da me, Satana!".
Sappiamo cosa era avvenuto a fare la differenza tra il vecchio Simone secondo la carne, prima della Croce, e questo nuovo Pietro secondo lo Spirito, dopo la Pentecoste. Era accaduto l’evento inattendibile e del tutto inatteso da parte dei discepoli: davvero il Signore era risorto ed era apparso a Simone. Dal giorno di Pasqua di quell’anno 30 d.C. Pietro ha finalmente cominciato a pensare secondo Dio e non più secondo gli uomini. La sua è la storia di un discepolo che diventa testimone. Questa storia oggi ci parla e ci interpella: noi siamo qui per assumerla e farla nostra.
Non possiamo lasciarci sfuggire un’occasione tanto preziosa e davvero provvidenziale, per rimettere a fuoco il profilo del testimone.
Chi è dunque il testimone? È uno che ha visto, che ricorda e racconta. Vedere, ricordare e raccontare sono i tre verbi, che ne precisano l’identità e ne configurano il comportamento. Il testimone è uno che ha visto, ma non da una postazione neutra né con occhio distaccato; ha visto, e si è lasciato coinvolgere dall’accaduto. E perciò ricorda - e i filologi ci informano che il termine greco per dire "testimone", martys, viene dal sanscrito smarati, ricordarsi - il testimone ricorda, non tanto perché sa ricostruire per filo e per segno la successione materiale dei fatti bruti, ma perché quei fatti gli hanno parlato e lui ne ha colto la polpa interiore sotto la corteccia dei dati nudi e crudi. Allora il testimone racconta, non come un foto-reporter, in modo chiaro e distinto ma freddo e distante, quanto piuttosto come uno che si è lasciato mettere in questione, e da quel giorno ha cambiato vita. Racconta prendendo posizione e compromettendosi; parla non in modo spento e ripetiticcio, ma "facendo vedere", anche a chi non ha visto, quello che i suoi occhi hanno contemplato e le sue mani hanno palpato. Il testimone non dimostra un teorema o una teoria; mostra una storia, facendo cogliere la differenza che in essa è stata prodotta dall’evento testimoniato.
Ecco come il Vaticano II applica questo profilo del testimone ai laici cristiani: "Ogni laico deve essere davanti al mondo testimone del Signore Gesù risorto e vivente" (LG 38). Questo identikit indica l’oggetto della testimonianza laicale, ne richiama una precisa condizione di possibilità, e ne prospetta un duplice paradosso.

2. L’oggetto o contenuto della testimonianza cristiana non è un complesso sistema di pensiero, né un complicato codice di precetti e divieti, ma un messaggio di salvezza, un evento puntuale e attingibile, meglio una persona, il Cristo risorto e vivente. Quindi l’oggetto della testimonianza è in realtà un soggetto: Gesù, Messia crocifisso e unico Salvatore di tutti. Questo soggetto umano-divino può essere testimoniato solo da cristiani che hanno fatto personalmente l’esperienza della salvezza. Insomma tu, fratello, sorella, puoi testimoniare che Cristo è risorto e vivente, solo se è risorto in te ed è vivente nella tua vita concreta, particolare e specifica. Quando sperimenti la sua presenza e la sua consolazione, quando Lui ti dà la forza di ricominciare, di donare e di perdonare, quando ti fa piangere con chi piange e gioire con chi gioisce, allora capisci che è davvero risorto e tu sei in grado di mostrarlo agli altri; allora tu non sei più come uno che informa su di Lui o racconta di Lui, ma ti lasci diventare la persona in cui Lui stesso si racconta. Senza mai dimenticare che il verbo della testimonianza va declinato al plurale: "noi siamo i testimoni". Solo due o tre cristiani risorti con Cristo e riuniti nel suo nome, possono rendere testimonianza alla sua presenza, oggi. Ma senza dimenticare neppure che i primi destinatari del messaggio non sono i "nostri", ma i cosiddetti "lontani". Spetta ai laici, soprattutto ai laici, annunciare il vangelo dappertutto. Ecco la "predica" che non solo tocca ai laici, ma che possono fare solo i laici.

3. A questo punto va assunta la domanda: come è possibile essere oggi testimoni di un evento accaduto duemila anni fa? È vero, la scoperta della tomba vuota avvenne quel 9 aprile dell’anno 30, ma è altrettanto vero che la risurrezione è un avvenimento che, per natura sua, non può essere chiuso e sepolto nel passato. Dire che Cristo è risorto, significa dire che Egli è vivo.
Ma questo evento continua ad accadere oggi, a condizione che lo lasciamo accaderein noi; se permettiamo a Cristo di risorgere in noi, di continuare a lottare contro il male che c’è dentro e fuori di noi. Se noi risorgiamo da una vita trascinata, da una fede languida, da una speranza spenta, da una condotta incolore, inodore, insapore, noi diventiamo i testimoni credibili e convincenti del Signore risorto. Ma se non ci riprendiamo da questo borghesismo che ci ha infiacchito tutti, se non ci decidiamo ad uscire dai nostri cenacoli, se non sappiamo intercettare le domande di vita e di senso dei poveri più poveri, quali sono i poveri di fede, come possiamo mostrare che il Risorto è con noi ogni giorno e continua ad "operare in sinergia con noi" (cfr. Mc 16,20) per la salvezza del mondo?
La nostra testimonianza allora non può non apparire segnata da due paradossi: il primo è quello di tenere insieme unite radicalità e quotidianità. Il credente sa di non poter fare sconti al messaggio che deve proporre, perché il vangelo che comunica non viene dall’uomo e non si può piegare ai gusti del mondo: di qui la radicalità. E il cristiano sa pure che il vangelo non è una proposta eccezionale per persone eccezionali. Il testimone del Risorto non si isola in un limbo dorato, né si astrae in un cielo intatto e intangibile. La vera esperienza del fuoco di Cristo ci riunisce nel cenacolo, ma per legarci alle cose, per inserirci nella storia, per accostarci agli altri. Quello che fa capire che siamo passati attraverso il fuoco dell’Amore, non sarà il nostro modo di parlare di Cristo al mondo, ma sarà il nostro modo di parlare come Cristo, con "fatti di vangelo", al mondo.
Legato a questo, è un secondo paradosso, quello che fa rimare perfettamente, a rima baciata, franchezza con dolcezza. La franchezza nel testimone deriva dalla coscienza di verità del vangelo: se si crede sinceramente che solo nel Signore crocifisso e risorto c’è salvezza, allora - come Paolo - non si può non dire coraggiosamente: "Io non mi vergogno del vangelo". Si deve essere sempre pronti a rendere ragione della speranza che è in noi, ma questo va fatto "con dolcezza" (1Pt 3,15). La testimonianza della fede infatti è un richiamo, non una pressione, e il vangelo non si impone mai, si propone, e "non con la spada, ma con la croce" (don A. Santoro).
Forse questi caratteri della testimonianza cristiana si possono esprimere più semplicemente con un racconto dei chassidim di M. Buber:

Mio nonno era paralitico. Un giorno gli chiesero di raccontare una storia del suo maestro, il grande Baal Shem. Allora raccontò come il santo Baal Shem, mentre pregava, avesse l’abitudine di saltare e di ballare. Mio nonno si alzò e raccontò; la storia lo eccitò a tal punto da mostrare, saltando e ballando, come avesse agito il maestro. Da quel momento egli fu guarito. Questo è il modo di raccontare storie.

Questo sia il nostro modo di raccontare, da testimoni, la storia di Gesù risorto, speranza del mondo.

Commento di mons. Francesco Lambiasi
tratto da "Il pane della Domenica. Meditazioni sui vangeli festivi"
Ave, Roma 2008