Omelia (03-05-2009)
Il pane della domenica
Pecorelle amate, non pietre scartate

Il buon pastore offre la vita per le sue pecore

Un’immagine antichissima, bellissima, efficacissima, quella di Gesù buon pastore, anche se minacciata da due virus micidiali. L’immagine colpì talmente i primi cristiani da spingerli a superare la proibizione ebraica di creare figure pittoriche o plastiche di Dio. Infatti la prima raffigurazione di Cristo, dipinta sulle pareti delle catacombe romane, è quella del "buon pastore", mentre bisognerà attendere il V secolo (432 d.C.) per trovare in una chiesa la prima rappresentazione di Gesù in croce, come appare in un pannello della porta lignea di Santa Sabina, sull’Aventino. Quella del Buon Pastore è anche una immagine di rara bellezza e di notevole efficacia comunicativa, poiché combina, nel ritratto di Gesù, la forza e insieme la tenerezza di un amore, spinto alla follia: fino a dare la vita per le pecore.
Si deve però spassionatamente riconoscere che l’immagine è stata aggredita dal virus del sentimentalismo e, così, nel tempo si è venuta estenuando in rappresentazioni sdolcinate, svenevoli, languidamente patetiche. Ma ad insidiare la figura del Buon Pastore è anche il virus del clericalismo, che tenta di "sequestrarla" per attribuirla esclusivamente a papa, vescovi e preti, mentre il pastore che si espone per difendere e nutrire le sue pecorelle è modello di vita per tutti i cristiani. Si esige pertanto un lavoro di delicato restauro che, mentre operi una attenta "raschiatura" della patina di sovrapposizioni idilliache, restituisca all’icona la sua purezza originaria e la sua primitiva pienezza di significato. Per questo è opportuno ricostruirne l’abbondante back-ground biblico.

1. Il pastore è uomo forte, tenace, capace di difendere il gregge contro ladri e bestie feroci; è premuroso verso le sue pecore, che conosce e chiama una ad una, condividendone vita e vicende, a tempo pieno. Nell’Oriente antico, come nella civiltà omerica, i re si consideravano volentieri "pastori dei popoli", ai quali la divinità aveva affidato il servizio di guidare e di curare il "gregge" dei sudditi.
La suggestiva metafora del pastore era fortemente radicata nell’esperienza degli "aramei nomadi" quali furono i patriarchi di Israele, e nell’anima di un popolo originariamente dedito alla pastorizia, continuava a provocare risonanze immediate e vivaci. Si spiega così il fatto che, per descrivere la trama di relazioni che legava il Signore al suo popolo, risultava spontaneo il ricorso alla similitudine del buon pastore: "Egli è il nostro Dio, e noi il popolo del suo pascolo, il gregge che egli conduce" (Sal 95,7). Così Dio ha guidato il suo popolo nell’esodo, "come un gregge nel deserto"; così Dio riconduce Israele dall’esilio in Babilonia: "Come un pastore egli fa pascolare il gregge e con il suo braccio lo raduna; porta gli agnellini sul petto e conduce pian piano le pecore madri" (Is 40,11).
Di fatto il Signore esercita la guida e la cura del popolo attraverso i suoi "pastori", i quali però si rivelano infedeli alla missione ricevuta e non rispondono alle sue attese. Dopo l’esilio il profeta Zaccaria riprende la polemica contro i falsi pastori, annunciando la venuta del futuro Pastore-Messia. Questo pastore si identifica in concreto con il Servo del Signore il quale, simile a una pecora muta di fronte ai suoi tosatori, si lascia condurre al macello come un agnello mansueto, per salvare mediante il sacrificio della propria vita il gregge disperso di Israele.

2. Fedele alla tradizione biblica, Gesù descrive la sollecitudine misericordiosa di Dio sotto i tratti del pastore, che va a cercare anche una sola pecora smarrita, a fronte delle novantanove rimaste al sicuro nell’ovile. Nei vangeli sinottici Gesù si considera come l’inviato di Dio alle pecore perdute di Israele (Mt 15,24). Il "piccolo gregge" dei discepoli che egli ha radunato, rappresenta la comunità dei salvati ai quali è promesso il regno (Lc 12,32); esso sarà perseguitato dai lupi esterni e da quelli interni, travestiti da pecore (Mt 10,16). Sarà un gregge disperso, ma, secondo le antiche profezie (Is 53,6; Zc 13,7) il pastore colpito lo radunerà nella Galilea delle nazioni (Mt 26,31s).
Nel quarto vangelo - e in particolare nel brano appena proclamato - questi elementi sparsi e tutti i dati anteriori vengono ripresi e approfonditi nel grandioso quadro che rappresenta la Chiesa vivente sotto la guida dell’unico pastore. Cristo è il pastore "bello", vero, autentico, che realizza il modello più alto di amore per il gregge: egli dispone liberamente della sua vita - perché nessuno gliela toglie (v. 18) - e perciò la depone a favore delle pecore (v. 17); quindi si espone fino al mettere a repentaglio la sua incolumità. In aperta opposizione ai falsi pastori, Gesù si accredita e si raffigura come il vero, unico pastore: il cattivo pastore pensa a se stesso e sfrutta le pecore; il pastore buono pensa alle pecore e dona se stesso. A differenza del mercenario, Cristo pastore non ricerca altro interesse, non rincorre altra ambizione, non persegue altro vantaggio che quello di guidare, nutrire, proteggere le sue pecorelle: "perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza" (v. 10). E tutto questo al prezzo più alto, quello del sangue, superando così perfino la gratuità più squisita del più tenero dei pastori di questa terra: chi di essi infatti, per quanto generoso e coraggioso, arriva al punto da mettere a repentaglio la propria vita, pur di salvare anche una sola pecorella del gregge?

3. La conseguenza coerente e spontanea di questa contemplazione di Gesù Pastore vero, buono e bello, è quella esclamazione di commosso stupore che abbiamo ritrovato nella 2ª lettura: "Guardate quale grande amore ci ha donato il Padre!". È davvero un amore stupefacente e incomprensibile: donandoci Gesù come Pastore che-dà-la-vita-per-noi, il Padre ci ha dato tutto: di più, certo, non poteva darci! Il suo è l’amore più alto e più puro: non è suscitato da alcun bisogno, non è condizionato da alcun calcolo, non è attratto da alcun interessato desiderio di scambio.
Ma un brivido di gioia ammirata e rapita non può non afferrarci anche quando contempliamo il mistero di ciò che siamo diventati, grazie all’amore del Padre e grazie alla bontà del Figlio-Pastore: noi siamo già figli e "saremo simili a Lui". Ci rendiamo conto che noi già viviamo la stessa vita di Dio?, e che un giorno questa vita ci possederà in pienezza? In una società "usa e getta", in cui molti rischiano di essere solo pietre di scarto, materiale da rottamare, Cristo ha accettato di essere lui "la pietra scartata dai costruttori" (1ª lettura) per fare di noi le "pietre vive" per la casa del suo Spirito.
Ma ammirare e contemplare non basta. L’imitazione dell’unico, vero Pastore comporta per la Chiesa due precise domande: nei pastori e in tutti coloro che hanno la missione di guida nella Chiesa, prevale la mentalità del manager o quella del servo? Non si deve mai dimenticare che nel gregge di Cristo i pastori restano pur sempre "pecore".
Inoltre: quanto risulta è effettivamente vissuta - non retoricamente declamata! - nella comunità cristiana la carità pastorale, che spinge i pastori a "non spadroneggiare sul gregge" (cfr. 1Pt 5,1-4) e i fedeli a obbedire ai "capi" permettendo ad essi di effettuare il loro indispensabile servizio "con gioia e non gemendo" (Ebr 13,17)?
Tra poco riceveremo la carne e il sangue dell’agnello di Dio: beati noi se ci lasceremo guidare dal nostro santo Pastore "ai pascoli eterni del cielo"! È scritto infatti: "L’agnello sarà il loro pastore e li condurrà alle sorgenti delle acque della vita" (Ap 7,17).

Commento di mons. Francesco Lambiasi
tratto da "Il pane della Domenica. Meditazioni sui vangeli festivi"
Ave, Roma 2008