Omelia (10-05-2009)
Il pane della domenica
Come tralci nell’unica vite

Chi rimane in me e io in lui fa molto frutto

Capita a volte, e neanche troppo raramente... Capita che ci si trovi a dover esprimere le intuizioni più folgoranti, i sentimenti più intensi, le emozioni più calde e vibranti, e non si trovino le parole giuste, o quelle trovate non riescano a dar fondo alla chiarezza della mente e al tesoro del cuore. È capitato anche a Gesù: lui, il grande comunicatore, il genio della parola, la Parola fatta carne, ha dovuto sperimentare la dolorosa insufficienza del nostro linguaggio: come declinare nelle povere parole degli umani la divina, inesprimibile, struggente relazione d’amore che lega il Padre al Figlio e il Figlio a noi, suoi poveri fratelli?

1. Gesù non si è lasciato paralizzare da questo limite strutturale della comunicazione umana, quale si sperimenta sempre quando la lingua è chiamata a superarsi per veicolare realtà "che occhio non vide e orecchio mai udì". Allora cosa ha fatto concretamente Gesù per riuscire a trasmettere l’abbagliante bellezza della vita divina che parte dal Padre-Abbà, passa per il cuore del Figlio e arriva al nostro povero cuore? Ha fatto ricorso alle immagini più semplici e comprensibili, alla portata dei "piccoli", e così ci ha permesso di vedere, o almeno di intravedere, quanto altrimenti non riusciremmo a indovinare.
Domenica scorsa Gesù ci ha comunicato la forza e la tenerezza del suo amore per noi attraverso l’immagine toccante del pastore. Ma sembra che neanche quella figura sia abbastanza eloquente per lui, e gli basti per dirci che la relazione che lo vincola a noi ha la stessa "alta tensione" di quella che lo vincola al Padre. E allora, ecco la folgorazione: la comunione tra Cristo e noi è talmente profonda, intima e vitale, che può essere ben raffigurata nella indissociabile unità che salda inconfondibilmente i tralci alla vite e la vite ai tralci: "Io sono la vite, voi i tralci, e il Padre è il vignaiolo".
Da dove nasce una unità così stretta e inscindibile? È la prima delle due domande che ci dobbiamo porre per non rimanere alla superficie o alla periferia di un messaggio tanto ardito e vertiginoso. Quella unità scaturisce dal nostro battesimo. Con il battesimo, infatti, noi siamo stati inseriti in Cristo come tralci nella vite: la linfa della grazia scorre in noi e ci fa partecipare alla vita divina della santa Trinità già fin da adesso, poiché siamo "chiamati figli di Dio e lo siamo realmente" (1Gv 3,1), e diventiamo destinatari dei beni eterni, dal momento che, "se siamo figli, siamo anche eredi" (Rm 8,17).
Gli effetti di tanta misericordiosa, straripante benevolenza sono sorprendenti: tutta la nostra personalità viene trasformata dalla grazia: anima, intelligenza, volontà, affettività, corporeità. Riceviamo un nuovo modo di essere, diventiamo effettivamente "partecipi della natura divina" (2Pt 1,4). La vita di Cristo diventa nostra: possiamo pensare come lui, amare come lui, agire come lui. Anzi veniamo abilitati a vedere Dio, il mondo, la nostra stessa persona con gli occhi di Gesù benedetto; siamo elevati ad amare il Signore, i poveri, i fratelli con il suo cuore; siamo in grado di sperare tutto il bene e tutti i beni che Cristo stesso spera in noi e per noi.
Del resto sarebbe impossibile pensare, amare, agire come Cristo, se egli rimanesse un modello esteriore a noi o anche solo un maestro che ci cammina avanti o affianco, e non venisse invece in noi con il suo stesso Spirito per pensare, amare, agire dentro di noi, sì che ogni cristiano può dire in verità con Paolo: "Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me" (Gal 2,20). Che si potrebbe tradurre così: "Non sono più io che penso, amo, agisco; è Cristo che pensa, ama, agisce in me".
"I nostri atti più intimi di credere, amare e sperare, i nostri umori e sensazioni, le nostre risoluzioni più personali e libere, tutto questo inconfondibile che noi siamo, è talmente compenetrato che egli è il soggetto ultimo, sul fondamento del soggetto che noi siamo" (H.U. von Balthasar).

2. Ma - e siamo alla seconda domanda della nostra riflessione - come si sviluppa quel germe di vita divina, seminato in noi con il battesimo? La risposta la conosciamo, ma merita di essere ripresa e approfondita: quel germe si sviluppa in noi con l’eucaristia e con la croce.
Innanzitutto con il pane dell’eucaristia. Ascoltiamo Gesù: "Come il Padre che ha la vita ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me" (Gv 6,57). In povere parole: come Gesù vive del Padre e per il Padre, così, comunicandoci al santo mistero del suo corpo e del suo sangue, noi viviamo per Cristo, con Cristo, in Cristo. È il principio dell’assimilazione vitale, in cui l’elemento superiore assimila a sé quello inferiore: il vegetale assimila il minerale, l’animale assimila il vegetale, l’umano assimila l’animale, non viceversa. Così, sul piano spirituale è il divino che assimila a sé l’umano, non viceversa. Pertanto, mentre in tutti gli altri casi è colui che mangia che assimila ciò che mangia, qui è il contrario: è Cristo che viene mangiato ad assimilare a sé il cristiano che lo mangia, come se gli dicesse: "Non sei tu che assimilerai me a te, ma sarò io che assimilerò te a me" (s. Agostino, Conf. 7,10). Si realizza quindi il "meraviglioso scambio" di cui parla la liturgia: non solo Cristo mi dà la sua "carne", ma anch’io gli do la mia; non solo egli mi dà i suoi pensieri e sentimenti, anch’io gli do i miei; non solo Cristo mi comunica la sua vita, anch’io gli comunico la mia, ognuno gli comunica la sua: un giovane gli comunica la sua giovinezza, una donna la sua femminilità, i coniugi il loro amore, un malato o un anziano la propria infermità. E così permettiamo a Cristo di prolungare in certo modo la sua incarnazione nel mondo.

3. Nel vangelo Gesù ci ha parlato di quella operazione "chirurgica", penosa, ma indispensabile e feconda, qual è la potatura per il tralcio: "Ogni tralcio che porta frutto (il Padre-vignaiolo) lo pota perché porti più frutto". Ecco l’altra grande forza che porta a piena maturazione il seme di vita divina del nostro battesimo: la croce.
La potatura operata dal Padre, divino viticultore, è inevitabilmente dolorosa, come ogni "correzione" che, "sul momento, non sembra causa di gioia, ma di tristezza; dopo però arreca un frutto di pace e di giustizia" (Ebr 12,11). È davvero consolante questo pensiero: il Padre-vignaiolo non ci pota per mortificarci, ma per fortificarci; non per frustrarci, ma per farci fruttificare. Ci pota come un vero Padre-Abbà, cioè "gemendo" con e per il tralcio che "geme". Quando mi capita di parlare con dei giovani papà o mamme che sono medici, mi commuovo sempre nel sentire la violenza che si devono imporre ogni qualvolta che, per prestare un pronto soccorso a qualche figliolo che s’è fatto male, sono costretti a farlo soffrire.
Non dobbiamo allora vedere le varie "croci" che ci affliggono come dei castighi di Dio per punirci, ma appunto come delle correzioni per educarci e farci crescere: "Il Signore corregge colui che egli ama e sferza chiunque riconosce come figlio" (Ebr 12,6). Mai Dio è veramente Abbà come quando deve ricorrere a quegli interventi necessari e salutari, quali sono le "potature" operate dalle sue mani misericordiose, all’interno di un misterioso ma infinitamente benevolo disegno d’amore.
Un giorno capiremo e benediremo: "Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa", ci ha ripetuto s. Giovanni (2ª lettura). Questo ci deve bastare. Noi però vogliamo benedirlo e ringraziarlo già fin d’ora, per poter "rimanere nel suo amore". E, grazie alla linfa della vite, diventeremo anche noi tralci vivi e vegeti. E saremo capaci di portare molto frutto.

Commento di mons. Francesco Lambiasi
tratto da "Il pane della Domenica. Meditazioni sui vangeli festivi"
Ave, Roma 2008