Omelia (19-04-2009)
padre Ermes Ronchi
Arrendersi all’amore come Tommaso

Aria di paura in quella casa. Paura dei Giudei, certo, ma anche e soprattutto paura di se stessi, della propria viltà, di come si erano comportati nella notte del tradimento. Eppure Ge­sù viene, nonostante il loro cuore inaffidabile e il mio cuore lento: venne Gesù e stette in mezzo a lo­ro.
La fede non è nata dal ricordo di Gesù. Il ricordo, per quanto vivo, non basta a rendere viva una per­sona, al massimo può far nascere una scuola. La Chiesa è nata da u­na presenza, non da una rievoca­zione.
Stette in mezzo a loro: Gesù si fa presenza. Dentro una comunità che per otto giorni contiene e por­ta anche l’incredulità di uno dei suoi membri migliori. Tommaso non crede, eppure non se ne va, ri­mane lì con il gruppo, che a sua volta non lo esclude: comunità, luogo della fede. Così tu quando è debole la tua fede, non sentirti e­scluso, resta qui, altri ti porteran­no, altri saranno testimoni e me­moria viva, paziente di segni e di pace, per te.
Mi conforta pensare che, se trova chiuso, Gesù non se ne va; se tar­do ad aprire «otto giorni dopo» è ancora lì, rispettoso perfino delle nostre paure: venne Gesù ancora a porte chiuse... e disse a Tomma­so... Gesù viene, attento ai dubbi dei suoi amici, così come il matti­no di Pasqua alle lacrime di Ma­ria. Viene, e non per essere accla­mato, ma per andare in cerca pro­prio dell’agnello smarrito nel pic­colo gregge degli undici.
Lascia gli altri dieci al sicuro e si avvicina a colui che dubita: metti qua il tuo dito, tendi la tua mano. A Tommaso basta questo gesto: colui che si mette nelle tue mani, voce che non giudica ma incorag­gia, corpo offerto ai dubbi e alle paure dei suoi amici, è Gesù, non ti puoi sbagliare. E lo stesso fa an­che con me, nei giorni del dubbio, quando credere è solo desiderio di credere: si propone di nuovo.
Tommaso si arrende, non si dice che abbia toccato; si arrende all’a­more che ha scritto il suo raccon­to sul corpo di Gesù con l’alfabeto delle ferite, indelebili come l’amo­re di Dio. E passa dall’incredulità all’estasi: «Mio Signore e mio Dio». Voglio custodire in me questo ag­gettivo come una riserva di corag­gio per la mia fede: Mio Signore! Piccola parola che cambia tutto, che non evoca il Dio dei libri, il Dio degli altri, ma il Dio intrecciato con la mia vita, assenza e poi più ar­dente presenza. Tommaso, come l’amata del Can­tico dice: «Il mio amato è per me e io sono per Lui».
Mio perché è parte di me.
Mio come lo è il cuore e, senza, non sarei.
Mio come lo è il respiro e, senza, non vivrei.