Omelia (26-04-2009)
don Giovanni Berti
Cristiani che narrano esperienze e non chiacchiere

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Ancora una volta, in questo tempo di Pasqua, ecco un racconto di una apparizione di Gesù Risorto a coloro che lo hanno visto vivere e morire. Gesù si mostra vivente a quelli che lo considerano oramai morto e sepolto. Infatti è questa l’esperienza che hanno fatto: hanno conosciuto uno che con parole e molti segni ha dimostrato loro di esser un grande amico e un grande maestro di vita e di fede, ma questo poi è stato sconfitto dai suoi nemici e con coraggio ha affrontato la morte. Gesù nella mente nel cuore dei suoi discepoli non c’è più, e non rimane che ricordarlo come personaggio importante ma oramai relegato nel passato. Ecco perché, quando Gesù appare vivente e non morto, è scambiato per un fantasma. Gli amici di Gesù sono impauriti da una cosa che, pur essendo stata preannunciata più volte dallo stesso Gesù, rimane oltre la loro comprensione ed esperienza. Il Vivente fa paura perché obbliga a cambiare mentalità e destabilizza l’esperienza.
Il passo di questa domenica inizia e finisce con un paio di parole che mi fanno riflettere e mi dicono molto su come vivere la mia fede cristiana.
Il Vangelo inizia con i due discepoli che "narrano" la loro esperienza di incontro di Gesù lungo la strada che da Gerusalemme porta a Emmaus. Sarebbe interessante leggere prima questo episodio, e proseguire con questo che segue immediatamente.
I due discepoli narrano la loro esperienza di incontro e conversione.
Questo mi insegna che la fede, ancor prima di esser un fine ragionamento o un insegnamento morale, è "racconto". Non posso annunciare con convinzione qualcosa che non è nella mia esperienza. Faccio un esempio: tra due persone che mi parlano dell’Africa e della missione, tra quello che ha letto solamente libri e visto documentari sui missionari e uno che ci ha abitato e magari fatto il missionario, sicuramente preferisco e trovo più convincente il secondo.
Mi rendo perfettamente conto che quando parlo meno di Dio in modo astratto e libresco, ma mi sforzo di narrare la mia esperienza di Dio così come lo sperimento nella vita di tutti i giorni, sono davvero più convincete e profondo.
I due discepoli di Emmaus, raccontando la loro esperienza non impongono nulla a nessuno, ma hanno dalla loro una esperienza che li rende sicuri e rinnovati interiormente. Questo loro racconto prepara il terreno per una ulteriore esperienza concreta del Vivente. E quest’ultima esperienza sarà a sua volta raccontata e diffusa fino ad oggi a noi che la ascoltiamo.
La domanda allora nasce (forse) spontanea: quand’è che faccio esperienza di Dio Vivente e del Risorto? Ho qualcosa da narrare?
Ecco un buon spunto per fermarsi nella frenesia delle cose da fare, e provare per davvero a pensarci-pregarci su. Tante volte, quando mi fermo a pregare meditando un passo della Parola di Dio, mi si accendono in testa e nel cuore come delle lampadine che mi aiutano a ricordare quando Dio e la sua pace sono entrati nella mia storia. Oppure ci son persone attorno a me che in un modo o nell’altro, con le loro esperienze, spesso diversissime dalla mia, mi raccontano la loro vita piena di Dio.
Sento quindi che è importante saper ascoltare la propria vita e la vita degli altri, in modo da poter anche noi dire "abbiamo incontrato il Signore" ( e non "abbiamo trovato il ragionamento giusto sulla fede!")
La seconda parola che mi dice come esser cristiano è "testimone", e si collega molto alla prima.
Un vero testimone, in un processo, è colui che ha visto e che può dire di esserci stato sulla scena del delitto. Non è un buon testimone quello che racconta fatti partendo da chiacchiere di altri e da suoi ragionamenti astratti e non comprovati da esperienza diretta.
Sono "testimone" non di dogmi ma di esperienze, e prima di tutto delle esperienze della mia vita, che "narrate" diventano annuncio del Vivente, che è vivo non solo nelle pagine di un Vangelo, ma lungo le strade della mia esistenza. Da qui la testimonianza di fede non è più un obbligo ma una conseguenza.


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