Omelia (10-05-2009)
Suor Giuseppina Pisano o.p.


"Rimanete in me, e io in voi..."; sono le parole con le quali il Signore Gesù ci chiama alla comunione con lui, una comunione di vita, la cui profondità ci sfugge, per la grandezza del Mistero nel quale veniamo introdotti, il Mistero stesso di Dio, che, in sé, include ogni uomo che crede nel Figlio Redentore.
Ed ecco che la Chiesa, nella celebrazione eucaristica di questa domenica, la quinta di Pasqua, ci fa giungere, ancora una volta, questo invito del Cristo, un appello, appassionato, possiamo ben dire, alla comunione con lui, il Redentore, il Figlio di Dio, quel Pastore, che ci conosce per nome; il Pastore che per ognuno ha dato la vita, come abbiamo visto la scorsa domenica.
Il brano del Vangelo di oggi riporta un passaggio del lungo discorso di addio del Maestro, in quell'ultima sera trascorsa coi suoi per celebrare la cena di Pasqua, prima di consegnarsi, volontariamente, a chi lo avrebbe arrestato, giudicato, e, infine, messo a morte.
Un discorso intenso, quello di Gesù, un discorso, che è anche il suo testamento; e, del quale, quasi sicuramente, in quel momento, i discepoli capirono ben poco; lo capiranno in seguito, dopo aver fatto esperienza del Risorto; e lo capiranno pienamente, dopo aver ricevuto il dono dello Spirito, " Colui che li guiderà alla verità tutta intera..." (Gv 16,13) e ricorderà loro tutte le parole del Maestro, rendendole vive e presenti alla loro mente, con la forza dell'amore che trasforma la vita.
A partire dall'esperienza della resurrezione, i discepoli non avranno più bisogno di fuggire, né di nascondersi; ma, rinvigoriti dallo Spirito, essi sapranno con certezza, che la vera vita è col loro Signore risorto, sperimentano cosa significhi vivere con Lui, anzi, vivere di Lui: una verità di vita, un'esperienza di fede che diverrà quell'annuncio di salvezza, che ancora risuona ai nostri giorni, e ancora, risuonerà nel tempo.
Anche noi, dunque, come quei primi discepoli, siamo chiamati a rimanere in Cristo, a dimorare in Lui, vivendo, con lui in una sempre più intima e profonda comunione.
Può sembrare arduo alle limitate possibilità umane, e, in effetti lo è; ma ciò che è impossibile all'uomo, non è impossibile a Dio; e lo stesso Signore spiega la realizzazione di questa comunione, servendosi di un'immagine semplice, ricca di poesia, e familiare, per quei tempi e per quella cultura: è l'immagine della vigna, in cui egli stesso è quell'unica vite feconda, che dà vita ai molti tralci; mentre il Padre, come vignaiolo, la coltiva: «lo sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo».
L'immagine della vigna è un'immagine ricorrente in tante pagine dell'Antico Testamento; per tutte, possiamo ricordare quelle del profeta Isaia, che contengono l'altissimo, struggente canto della vigna, che così esordisce: "Voglio cantare per il mio diletto, un canto d'amore alla sua vigna"; in questi versi, Dio è paragonato ad un contadino, che ama la sua terra, quasi fosse una creatura viva; egli possedeva una vigna in un luogo fertile, e, ad essa, dedicò tutte le sue cure: la coltivò con intelligenza e passione, per essa spese tempo ed energie, e poi, ne attese il frutto; un frutto che non venne: "Mentre attendevo che facesse uva, recita il testo, essa ha prodotto uva selvatica", un frutto inutile.
Di questa simbolica vigna, lo stesso Isaia dà la spiegazione, sottolineando che la vigna ingrata è il popolo eletto: "Ebbene, son le parole del Profeta, la vigna del Signore degli eserciti, è la casa d'Israele, gli abitanti Giuda, sua piantagione prediletta. Da loro si attendeva rettitudine, ed ecco spargimento di sangue; si attendeva giustizia, ed ecco grida di angoscia" (Is 5,1-7).
All'amore tenero e attento di Dio, il popolo che lui stesso si è scelto, per rivelarsi, poi, ad ogni altro popolo, risponde con un rifiuto totale dei suoi comandamenti e del suo amore; e, anziché vivere l'amicizia col suo Dio, vive di prevaricazioni e di violenza, che il Profeta indica con le espressioni: "spargimento di sangue" e "grida di angoscia."
È la storia di Israele, ma è anche, la storia dell'intera umanità; la nostra storia, dunque; una storia che troviamo adombrata, anche, nella parabola dei vignaioli omicidi, riportata nel Vangelo di Marco, che così recita: "Un uomo piantò una vigna, la cinse con una siepe, vi scavò un frantoio, vi costruì una torre, la affittò a dei coloni, e partì per un lungo viaggio" (Mc 12,1).
È l'offerta del dono di Dio, che affida all'uomo ogni suo bene, perché se ne serva e lo faccia fruttificare, usando la ricchezza di mezzi di cui Dio lo ha dotato; ma l'uomo, da amministratore dei beni, vuol farsi padrone indiscusso ed assoluto, ed ecco, ripetersi, nella storia, quell'ingiustizia antica, che, come scrive Isaia, si traduce, poi in ogni sorta di violenza, che genera angoscia.
Nella parabola evangelica, quando il padrone decide di chieder conto del prodotto della vigna; i servi inviati a questo scopo, vengono percossi e uccisi, da quegli amministratori infedeli e ladri; poi, è lo stesso figlio: l'erede, che verrà eliminato, in modo che ogni ricchezza passi completamente nelle mani di quegli uomini avidi di ricchezza e di potere.
E' la storia della Redenzione, che vede Dio farsi incontro all'uomo nella persona del Figlio; ma l'uomo, ancora una volta, si mette contro di Lui, per essere arbitro e padrone unico della propria vita, e, così facendo la perde, la distrugge, come accade di ogni ramo reciso dal tronco, nel quale non scorre più la linfa', e, perciò si secca; e, d'ora in poi è destinato ad esser legna da ardere: "Chi non rimane in me – ammonisce il Signore – viene gettato via come il tralcio, e si secca, e poi, lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano".
Ma, se quel tralcio resta attaccato alla vite, tutta la vitalità e la fecondità dell'albero, passa in lui, ed egli produce frutto in abbondanza.
È così di ogni uomo che accoglie il Cristo, e vive in comunione con lui: la sua vita risplenderà delle opere stesse del Maestro, che ci assicura: "Chi rimane in me, e io in lui, fa molto frutto...".
È il dono e il mistero grande della comunione con Cristo, un dimorare e rimanere reciproco che, nell'uomo, si attua mediante la fede profonda e l'amore; mentre da parte del Signore Gesù è un incessante dono di grazia, che fa scorrere in noi la sua stessa vita: la vita del Figlio di Dio.
Ora questa vita, che si rinnova continuamente in Cristo, perché da Lui attinge luce e forza, è una vita ispirata dall'amore, non semplicemente un'emozione, ma virtù, quell'energia dello spirito che opera, e trasforma, talvolta, in modo radicale, come oggi la liturgia ci ricorda, a proposito di Paolo, desideroso di unirsi ai discepoli; Paolo il grande convertito, il "prigioniero del Signore" (Ef 4,1) che, da accanito persecutore, divenne apostolo appassionato del Cristo, che egli finì per amare più di se stesso (cf At 9, 26-31).
Vivere da risorti, dunque, è vivere in comunione con Dio nel Figlio, è dimorare in Cristo, accogliendolo sempre più pienamente in noi, con fede, con amore, mediante i sacramenti che egli stesso ci ha dato, e tra questi, primo tra tutti, l'eucaristia, il suo corpo offerto e il suo sangue versato, garanzia di salvezza e di vita eterna.
Questa comunione, poi, ha il suo completamento nell'amore del prossimo: la vera misura dell'amore di Dio, come l'apostolo Giovanni ci ricorda: "Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità... e questo è il comandamento (di Dio): che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo e ci amiamo gli uni gli altri, secondo il precetto che ci ha dato. Chi osserva i suoi comandamenti dimora in Dio ed egli in lui" (1Gv 3,18-24).

sr Maria Giuseppina Pisano o.p.
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