Omelia (03-05-2009)
mons. Roberto Brunelli
Conoscere: ecco il segreto

Ogni anno, la quarta domenica di Pasqua presenta un passo del capitolo 10 del vangelo secondo Giovanni, in cui Gesù parla di sé, prendendo spunto da un aspetto della vita ben noto ai suoi ascoltatori, quello della pastorizia. Nel passo di quest’anno egli pone subito una distinzione tra coloro che conducono il gregge al pascolo. Ci sono i mercenari, dice, cioè quanti lo fanno di mestiere, interessati soltanto allo stipendio, dunque al proprio interesse; a loro non importa delle pecore, e se un lupo le assalta se la danno a gambe, abbandonandole alla loro sorte. Io non sono così, dice Gesù: io sono il buon pastore, che ha cura delle pecore, le guida ai pascoli migliori, le protegge e le difende sino a dare la vita per loro.
Nell’occasione, egli preannuncia velatamente la propria morte e risurrezione: "Io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo". Ma a proposito del gregge – in cui è facile riconoscere l’insieme dei suoi fedeli – esprime anche altri due concetti di grande rilievo. Anzitutto, la familiarità con loro: "Io conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me". Nel linguaggio biblico, il verbo conoscere non ha il significato un po’ banale che gli si dà oggi; noi diciamo di conoscere qualcuno che ci è stato semplicemente presentato, o che abbiamo incontrato qualche volta; qualcuno di cui sappiamo l’esistenza, ma con cui non abbiamo rapporti abituali. Nella Bibbia invece il conoscere implica intimità e reciproca fiducia; è la parola usata di solito per indicare il rapporto coniugale: "Adamo conobbe Eva sua moglie, che concepì e partorì..." (Genesi 4,1); "Ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù", annuncia l’angelo a Maria, la quale risponde: "Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?" (Luca 1,31-34). Quando dunque Gesù dice: "Io conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me", si intuisce quale profondità presenti il suo amore per noi, e con quale profondità egli si aspetti di essere ricambiato; sta qui il "segreto" di chi, consapevole e disponibile, ha trovato il senso autentico della propria esistenza e ne fa il capolavoro che si manifesta nei santi, quelli noti e, ancor più spesso, quelli che solo Dio conosce.
L’altro concetto da non trascurare nel passo evangelico odierno riguarda la composizione del gregge e il suo futuro: "E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore". Il significato immediato della frase è da intendere nel fatto che Gesù ha dato la sua vita non solo per il popolo d’Israele ma per tutti i popoli, come peraltro risulta dal suo mandato agli apostoli: "Andate in tutto il mondo e proclamate il vangelo ad ogni creatura" (Marco 16,15). Ma appare ovvio anche un secondo significato: egli non ammette divisioni tra i credenti in lui. Di qui il duplice impegno che giustamente assorbe tante energie della Chiesa oggi: quello missionario, e quello ecumenico; annunciare il vangelo, e operare per l’unità tra i cristiani.
Dal fatto poi che egli ha dato incarico a qualcuno di annunciare il vangelo e in suo nome reggere la comunità di chi lo accoglie, deriva la cura che ci siano sempre cristiani disponibili ad assumersene l’onore e l’onere, prendendo da lui l’esempio e cercando al meglio di imitarne le modalità. Per questo, la "domenica del buon pastore" è anche la giornata di preghiera per le vocazioni, peraltro in obbedienza a un invito esplicito: "La messe è molta, ma gli operai sono pochi. Pregate dunque il padrone, perché mandi operai nella sua messe". Ne mandi quanti ne occorrono, e di qualità.