Omelia (10-05-2009) |
Agenzia SIR |
Dinanzi alle esigenze e alle prospettive di questo Vangelo (portare frutti abbondanti... essere gettati via e bruciati come tralci secchi) ci può essere la tentazione di prendere le distanze e pensare che questa chiamata è solo per alcuni, i discepoli di Gesù o i santi. Ma il Vangelo è per tutti una storia scritta e da scrivere. Certo, Dio ha delle aspettative, ma ogni storia è la storia del rapporto d'amore con Lui. Dopo la similitudine del pastore e delle pecore, il Vangelo di questa domenica ci presenta quella della vite e dei tralci. Cambia l'immagine, ma non i termini del rapporto: noi e Gesù. È vero, si tratta di una similitudine, di un paragone, di una immagine, ma il tutto contiene e rivela (nel senso che svela, ma anche nel senso che copre, perché il mistero delle cose di Dio supera ogni nostra immaginazione) qualcosa di più profondo e di più vitale: come i tralci alla vite, anche i discepoli del Signore sono legati a Lui – e al suo corpo che è la Chiesa – in vera fusione. Nel senso che noi non possiamo vivere senza di Lui. E non dovremmo aggiungere altro. Le cure che il contadino ha per la sua vigna – l'innesto, la pulizia, la potatura, la cura del frutto – sono solo una pallida immagine della cura amorevole che il Signore ha per ognuno di noi. Solo Dio può amare ognuno come fosse l'unico. L'immagine della vite e dei tralci è formidabile anche per un altro motivo. Se il tralcio è unito alla vite, vive e porta frutto, nel senso che dà senso alla propria esistenza. Ma c'è di più: è anche unito vitalmente agli altri tralci. Avendo radici profonde – come quelle della vite – nell'amore di Dio, anche tra di noi si innesta un rapporto di agàpe, di carità reciproca. La linfa vitale di ogni essere è l'amore, amore che viene, amore che va: è la comunione piena, è l'esperienza cristiana che, dal tempo di Gesù e degli apostoli, è sempre un "mettere tutto in comune". In tempi di globalizzazione, dove sono soprattutto le merci ad essere in rete nel mercato globale, il cristianesimo corregge il tiro perché accoglie la sfida e aiuta tutti a passare da una vita comune ad una vita in comune. L'immagine della vite e dei tralci, propria del solo Cangelo di Giovanni, è la base dell'etica cristiana. Negli altri Vangeli si parla della vigna del Signore, ma con contenuti e intenzioni diversi. La vita dell'uomo è nelle mani di Dio. Lui la visita, toglie e pota i tralci ed essa è sottoposta al Suo giudizio perché ne è il principio. A partire da questo, l'intera etica cristiana può riassumersi nel verbo rimanere. Questa è la vera responsabilità morale dell'uomo: dato il dono di Dio, la nostra risposta e la speranza per la vita stanno nel rimanere in Lui. Questa totale unificazione della vita morale, tutta raccolta e dipendente da un unico "comando", è la scommessa definitiva sulla persona di Gesù Cristo, vero dono di Dio. Perciò il nostro rimanere in Lui si compie con il rimanere in noi delle sue parole, nel nostro pensiero, nel nostro cuore e nelle nostre opere. Basta pensare alla conseguenza di questo nella nostra preghiera: "Quello che volete, chiedetelo". Così la preghiera non è più un mezzo per costringere Dio a noi perché chiedendo quello che vogliamo chiediamo secondo la sua volontà. Qui è la fonte della vera gioia ci è consentito di vedere e giudicare ogni cosa nella luce di Dio e in quella verità di cui non siamo capaci. Certamente il Vangelo è un discorso spirituale, religioso, ma non per questo meno umano, nel senso pieno del termine. Lo provano i mille testimoni sconosciuti e anonimi delle nostre comunità – famiglie e parrocchie – e in modo splendido la grande schiera dei santi che hanno attraversato i secoli e le nazioni del nostro continente. Basta ricordarne i nomi per intuirne immediatamente la "ricaduta" sociale e "umanitaria": Benedetto da Norcia, Francesco e Chiara d'Assisi, Camillo de Lellis, Giovanni Bosco, Francesca Cabrini, Daniele Comboni, Teresa di Calcutta... Di loro si può certamente dire che sono stati – e restano – tralci uniti alla vite e che, proprio per questo, hanno portato molto frutto. E noi? Siamo già discepoli e nello stesso tempo lo dobbiamo diventare, in un processo infinito, perché non siamo discepoli di una dottrina, ma di Gesù Cristo. A cura di don Angelo Sceppacerca |