Omelia (10-05-2009)
padre Ermes Ronchi
Una linfa d’amore che porta la vita

Avevamo sempre pensato che Dio fosse il buon pa­drone del campo, il conta­dino operoso e fiducioso.
Ma ora Gesù afferma qual­cosa di assolutamente nuo­vo: «Io sono la vite, voi i tral­ci». In Cristo il vignaiolo si è fatto vite, il seminatore si è fatto seme, il vasaio argilla, il Creatore creatura.
Dio è in me, non come pa­drone ma come linfa vitale.
Dio è in me, non come voce che impone ma come il se­greto della vita. Dio è in me,
come radice delle mie radi­ci, perché io sia intriso di Dio.
Tra poco cominceranno a profumare i fiori della vite, i più piccoli tra i fiori. All’inizio della primavera, il vi­gnaiolo attende che la linfa', salita misteriosamente lun­go il tronco, si affacci alla fe­rita del tralcio potato, come una goccia, come una lacri­ma. All’apparire di quella la­crima sui tralci, mio padre diceva: è la vite che va in a­more!
Se la stessa linfa scor­re in Cristo vite e in me tral­cio, allora anche la mia vita porterà, attraverso vene d’a­more, frutti buoni.
C’è una linfa' che sale dalla radice del mondo, ad un mi­sterioso segnale della terra e del sole, e in alto apre la corteccia che sembrava sec­ca e morta e la incide di fio­ri e di foglie. E per un mira­colo, che neppure arriva più a stupirci, trasforma il calo­re del sole in profumo e il buio della terra in colore.
Quella linfa', quella goccia d’amore, che tante volte ho visto tremare sulla punta del tralcio, è umile immagine di Dio, dice che un amore per­corre il mondo, sale lungo i ceppi di tutte le vigne, di tut­te le vite. E perfino le mie spine ha fatto rifiorire. Vie­ne da prima di me e va oltre me. Viene da Dio, e dice a questo piccolo tralcio: «Ho bisogno di te per una ven­demmia di sole e di miele». Ho bisogno di te, anche di un grappolo solo, perché senza i vostri tralci la vite è sterile.
Parole centrale oggi: «rima­nete in me», noi siamo già in Dio, Dio è già in noi, siamo percorsi da Lui, non c’è da cercarlo lontano, è qui, è dentro, scorre nelle vene dell’essere.
E poi «portare frutto», il no­me nuovo della morale e­vangelica non è sacrificio ma fecondità, non ubbi­dienza ma espansione, non rinuncia ma centuplo. Non di penitenze c’è bisogno, ma di frutti con dentro un buon sapore di vita, a disse­tare l’arsura delle cose.
Nessun albero consuma i propri frutti, nessuna vite; essi sono portati, sono offerti per la gioia e l’alimen­to delle altre creature. Que­sta è la perfezione: maturare e dimenticarsi nel dono.