Omelia (10-05-2009) |
mons. Roberto Brunelli |
Rami secchi, rami fruttuosi La scorsa domenica abbiamo sentito Gesù parlare del proprio rapporto con chi crede in lui, paragonandolo a quello di un buon pastore, tutto dedito al bene del suo gregge. Chiaramente è una similitudine; non risulta egli abbia mai posseduto una pecora, e noi non siamo un gregge; ma il nostro rapporto con lui è così particolare, così differente persino da quello possibile con il più amato dei nostri simili, che lo si può spiegare soltanto per approssimazione, con paragoni: utili, ma sempre inadeguati. Ecco perché egli stesso ricorre anche ad altri paragoni, come ad esempio quello della casa sulla roccia: la roccia è lui, noi siamo la casa che, se radicata in lui, resiste a tutte le avversità (Vangelo secondo Matteo 7,24-27); oppure quello dell’acqua viva promessa alla donna incontrata al pozzo: lui è la sola acqua in grado di soddisfare la nostra sete più profonda, la sete di infinito (Vangelo secondo Giovanni 4,3-15). Di tutti i paragoni, quello del vangelo odierno è forse il più immediato, il più evidente: in qualunque pianta da frutto, un ramo dà i suoi frutti sino a quando resta saldamente attaccato al tronco; se ne viene separato, inevitabilmente secca e perde la sua funzione. "Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano". Gesù ama scegliere i suoi riferimenti tra le cose più semplici, quelle della comune esperienza. Si pone così nella tradizione degli scritti biblici, rispetto ai quali però introduce sempre una novità, un approfondimento. Già in passato i profeti si erano avvalsi del paragone della vite, ma avevano sempre parlato di una vigna nella sua globalità, e assunta a rappresentare il popolo di cui Dio si prende cura (si veda ad esempio Isaia 5,1-7). Gesù invece parla della singola pianta, la vite, e considera non il popolo ma i suoi singoli componenti, evidenziando il suo stretto, vitale rapporto con ciascuno di loro. Manifesta così che, pur se insieme noi formiamo una comunità, il rapporto con Dio rimane essenzialmente un fatto personale, individuale, e l’autentico rapporto con i nostri simili è solo quello che passa attraverso il tronco comune; altrimenti saremmo uniti tra noi non come lo sono su una pianta i rami verdeggianti carichi di buoni frutti, ma come sono uniti i rami recisi, raccolti a formare una fascina: rami secchi, buoni soltanto ad alimentare il fuoco. Invece, "chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto". Ci si può chiedere – non è di immediata evidenza – in qual modo ciascun cristiano sia vitalmente unito al suo Signore, e quali siano i frutti di tale unione. Per trovare una risposta alle due domande, non occorre cercare lontano; sta tutta in tre parole: fede, speranza e carità. La fede è quella di chi intimamente riconosce lui come l’Uomo che è anche Dio, si fida di lui e perciò si impegna a vivere come lui insegna. La speranza è quella di chi vede in lui il senso e il valore della propria vita, presente e futura. La carità è quella di chi, consapevole di quanto egli ci ami, contraccambia tanto amore nel modo da lui stesso indicato, amando il prossimo. La fede porta a pregare e accogliere i suoi doni, espressi anzitutto nei sacramenti: basti pensare all’Eucaristia in cui, con la comunione, il "rimane in me, e io in lui" prende addirittura evidenza fisica. La speranza porta a valutare tutto nella prospettiva del "rimanere in lui" definitivo. La carità produce i frutti che dal "rimanere in lui" sono generati. |