Omelia (28-06-2009)
Il pane della domenica
Un Dio amante della vita

Fanciulla, io ti dico "Alzati!"

Un urlo terribile al cielo. Così Paolo Onofri ha reagito alla notizia della morte del figlio, il piccolo Tommaso. Quando apprendiamo notizie del genere, sperimentiamo uno strazio infinito: la cosa si verifica specialmente ogni volta che la morte colpisce qualcuno intorno a noi, un buon ragazzo deceduto a seguito di un incidente stradale o una bella ragazza minata da un male incurabile. Se poi la vittima è addirittura un piccolissimo bambino, rapito e barbaramente ucciso da una banda di balordi, ci sentiamo salire dal cuore una rabbia incontenibile: perché tanta assurda crudeltà? Ma per noi credenti la domanda si fa ancora più spinosa e inquietante: dov’è Dio, quando la morte, l’"inesorabile falciatrice", esibisce il suo volto più spietato e si scatena come un mostro incombente e feroce?

1. Finora l’evangelista Marco ci ha presentato Gesù che lotta corpo a corpo contro il male, e vince: lotta contro i mali dello spirito di tanti poveri "diavoli", posseduti dal Maligno, e vince; lotta contro le devastanti malattie del corpo, come la lebbra, e vince; lotta contro le forze indomabili della natura, come quella notte della tempesta sul mare, e vince. Sarà allora capace di vincere anche l’ultimo nemico, la morte? A questa domanda capitale l’evangelista non risponde citando dalla bocca del Maestro di Nazaret sottili elucubrazioni sulla sofferenza e sulla morte; peraltro il suo insegnamento al riguardo è stato sempre piuttosto ridotto all’essenziale. S. Marco preferisce farci vedere l’insegnamento di Gesù, per come esso si è effettivamente svolto, fatto cioè più di gesti che di parole, e perciò l’evangelista ci riporta un evento concreto e specifico: il risuscitamento di una ragazzina di dodici anni. S. Marco, infatti, sa bene che Gesù non è venuto tanto a spiegare la morte, ma ad eliminarla.
Nel racconto di questo miracolo l’evangelista incunea un altro episodio, la guarigione di una donna che da dodici anni soffriva di perdite di sangue. A causa di questa malattia che la rendeva "maledetta" agli occhi della gente e la relegava in una penosa situazione di impurità legale, la poveretta doveva assolutamente evitare ogni contatto umano: insomma, da quando aveva cominciato a patire per quelle terapie umilianti, costose e inconcludenti, anzi controproducenti, viveva come condannata ad una morte civile cronicizzata, interminabile.
Abbiamo sentito il racconto dei due rispettivi prodigi operati da Gesù: Marco li descrive quasi come una sorta di "marcia trionfale" verso la vita. Il percorso del Maestro parte dalla riva del lago, dove veniamo a sapere che la figlia di Giairo è agli estremi. Per strada apprendiamo dell’avvenuta guarigione della donna emorroissa e della morte sopraggiunta della ragazzina. Quando arriviamo alla casa del capo-sinagoga, nel cortile esterno è già in corso la celebrazione del funerale.
Si tratta di due racconti ad incastro, con un unico centro: la fede. Giairo deve affermare la sua totale fiducia nel Signore, nel momento in cui tutto lo spinge a disperare: "Non temere - gli dice Gesù - continua solo ad aver fede!". L’emorroissa deve passare da un calcolo interessato che la spinge alla ricerca della salute, a un rapporto personale con il Maestro: solo allora sarà salvata, e lo sarà per la fede, come l’aiuta a riconoscere espressamente Gesù: "Figlia, la tua fede ti ha salvata". Il messaggio è trasparente, e si può concentrare in una domanda, che riguarda noi, non Dio: il punto non è se Dio è veramente capace di farci passare dalla morte alla vita, ma se l’uomo è sinceramente disposto a passare dall’incredulità alla fede.

2. Infatti Gesù ha ripreso in mano le sorti dell’uomo e ha dato volto al Dio che chiamava teneramente Abbà: è il Dio che "non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi. Egli infatti ha creato tutto per l’esistenza. Le creature del mondo sono sane, in esse non c’è veleno di morte" (1ª lettura). Dio fa trionfare la vita, perché è il Signore "amante della vita" (Sap 11,26). Ma Gesù va ancora più in là, rispetto alla sapienza di Israele: ci rivela che non solo non è stato Dio a volere la morte dell’uomo, perché "la morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo", ma che il Signore "non abbandonerà la nostra vita nel sepolcro, né lascerà che i suoi fedeli vedranno la corruzione" (cfr. Sal 16). Quando l’evangelista Marco raccontava i miracoli di cui oggi abbiamo sentito nel vangelo, Gesù aveva già vinto la morte con la sua risurrezione, e i cristiani credevano che se Cristo è risorto, anche noi risorgeremo.
Questa fede che per i primi cristiani era talmente sicura che per essa erano pronti a dare la vita, per tanti di noi oggi si è fatta nebulosa e incerta, al punto che molti confondono risurrezione con reincarnazione. Il cristianesimo invece sta o cade con l’annuncio della risurrezione di Cristo e perciò anche della risurrezione dei nostri corpi mortali: il cristianesimo non solo crede queste due verità, intimamente intrecciate e del tutto inscindibili, ma solo il cristianesimo le crede.
Il problema allora oggi non è dato dal fatto che i cristiani non sono la maggioranza nel mondo, ma che sono pochi i cristiani che vivono nella prospettiva della risurrezione. Non è perché la consapevolezza del dono e del compito di questa fede si è fatta più fiacca e confusa, che oggi il messaggio cristiano risulta complessivamente sfocato e così poco incisivo nel contrastare quella irrespirabile atmosfera di morte che, come una nube tossica, si fa sempre più densa e opprimente sul nostro mondo?
C’è un piccolo libro che ha fatto molto parlare di sé negli ultimi anni. Oscar e la dama in rosa, così si intitola, è la storia di un bambino di dieci anni colpito inesorabilmente dalla leucemia. Su consiglio della misteriosa signora vestita di rosa, l’unica a non scappare davanti al suo male,
Oscar inizia a scrivere a Dio. Le sue lettere conducono così il lettore dentro le diverse stagioni della vita: quella delle scoperte, quella dell’amore, quella delle riflessioni. Fino al momento di chiudere gli occhi, con un’avvertenza lasciata sul comodino: "Solo Dio ha il diritto di svegliarmi". Noi cristiani crediamo che solo Cristo ha il potere di svegliarci. Lui non è venuto ad abbattere il muro della morte, ma vi ha aperto un varco piccolo e stretto da passarci un solo uomo alla volta, e da quando è risorto c’è sempre lui pronto ad accoglierci in quel varco uno alla volta, per portarci nella casa del Padre e farci eternamente felici.
Annunciare la risurrezione non significa soltanto enunciare una verità, ma immettere una forza viva nella vita della gente: un conto è vivere sotto l’incubo della morte, un conto è vivere sereni e forti per la certezza della risurrezione. Un grande giornalista degli ultimi anni, Domenico del Rio, scriveva nel suo ultimo articolo pubblicato postumo: "Prendimi! Che io presto risorga!". E ancora: "È l’intenso desiderio di avere presto con sé, dopo la morte, il proprio corpo risuscitato... l’intenso desiderio di essere preso da Dio in tutta la propria umanità".
Questo desiderio è alimentato dalla certezza, che tra poco riaffermeremo: "Annunciamo la tua morte, Signore; proclamiamo la tua risurrezione, nell’attesa della tua venuta".

Commento di mons. Francesco Lambiasi
tratto da "Il pane della Domenica. Meditazioni sui vangeli festivi"
Ave, Roma 2008