Omelia (18-05-2003) |
don Elio Dotto |
La promessa della casa Penso che tutti, in un modo o nell'altro, amiamo la nostra casa. Certo, alle volte la sentiamo anche piccola e stretta: e tuttavia sperimentiamo tutti, ogni tanto, la gioia di poterci ritirare in casa, nella nostra camera, chiudendo fuori, almeno per un momento, le tante occupazioni e preoccupazioni che la vita ci presenta. La casa è per noi preziosa: perché la casa è il luogo sicuro dal quale inizia e al quale ritorna ogni nostro cammino; alla casa noi possiamo affidare ogni cosa che ci è cara e ogni parola che ci paia troppo delicata per orecchie estranee; ma soprattutto la casa ci permette di custodire il nostro passato per il futuro, senza bisogno che noi lo rievochiamo in ogni momento ingombrando il presente. Dunque, il desiderio della casa tocca un po' il cuore di tutti. Proprio come accadeva già in quel tempo, ai discepoli di cui ci parla il Vangelo di domenica (Gv 15,1-8): anche quei discepoli sentivano forte il desiderio di una casa. Essi una casa l'avevano trovata il giorno in cui avevano incontrato Gesù di Nazareth. Quel giorno erano stati colpiti dalle parole del Maestro, e avevano deciso di metter su casa con lui. Per questo motivo, lo seguivano ovunque andasse: e anche quando a due a due erano stati inviati a predicare, avevano sentito forte nel cuore il desiderio di ritornare a casa, da Gesù, per trovare in lui la pace e la forza necessarie. Ora Gesù stava per lasciarli: la sua condanna a morte era ormai già scritta, e i discepoli vedevano così andare in frantumi quella casa, quella compagnia che avevano costruito. Il loro cuore, dice il Vangelo, era turbato (cfr Gv 14,1): erano tutti affannati, agitati, proprio come noi, quando non riusciamo a trovare una casa tranquilla in cui riposare. Appunto al turbamento dei discepoli volevano portare soccorso le parole di Gesù. «Rimanete in me e io in voi. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà dato» (Gv 15,4.7). Queste parole dovettero certo apparire promettenti ai cuori smarriti dei discepoli; ma anche sembrarono subito illusorie. Come potevano rimanere in Gesù, se lui stava per essere strappato via da loro? Come potevano custodire la sua compagnia davanti all'ora inesorabile della morte? Ai discepoli apparivano dunque illusorie quelle parole di Gesù. Proprio come a noi appaiono illusorie tutte quelle parole della Scrittura che promettono pace e sicurezza: perché ci sembrano lontane dal turbamento e dall'insicurezza che segnano ogni giorno della nostra vita. In realtà, forse anche a Gesù – almeno per un attimo – apparvero illusorie quelle sue parole. Perché anche lui sentiva nel cuore la tristezza del distacco; e anche lui – poche ore più tardi – dirà l'umanissima invocazione del salmo 21: «Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato? Invoco di giorno e non rispondi, grido di notte e non trovo riposo» (Sal 21,2s.). Eppure Gesù sapeva che il Padre non lo avrebbe abbandonato nell'ora della morte; egli sapeva che il Padre avrebbe continuato ad essere la sua casa accogliente. Gesù sapeva; e per questo riuscì a trasformare il suo grido di disperazione in canto di lode: «Lodate il Signore, voi che lo temete, gli dia gloria la stirpe di Giacobbe. E io vivrò per lui, lo servirà la mia discendenza» (Sal 21,24.30s.). Appunto questa lode e questa fede Gesù vuole insegnare a noi, se soltanto siamo capaci di rimanere in lui come i tralci nella vite. |