Omelia (28-06-2009) |
don Marco Pratesi |
Fatti per la vita La lettura unisce due passi alquanto distanti, che fanno comunque parte di un più ampio confronto tra giusti ed empi. Ambedue si comprendono meglio tenendo presente quanto li precede. L'affermazione "Dio non ha creato la morte" è preceduta da "non affannatevi a cercare la morte con gli errori della vostra vita, non attiratevi la rovina con le opere delle vostre mani" (1,12); e quella secondo la quale "Dio ha creato l'uomo per l'incorruttibilità" da "(gli empi) non conoscono i misteriosi segreti di Dio; non sperano ricompensa per la rettitudine né credono a un premio per una vita irreprensibile" (2,22). Questo inquadramento è importante per chiarire che cosa abbia di mira l'autore ("Salomone", cf. 7,7-11): egli intende combattere una visione del mondo e della vita - appunto quella degli empi - secondo la quale l'orizzonte ultimo della vita umana è la morte. La vita degli empi si struttura attorno al principio che "siamo nati per caso" (2,2) per scomparire nel nulla dopo un breve attimo. Mentalità magistralmente illustrata nel discorso a loro attribuito in 2,1-20 (che vale la pena leggere). A ciò il sapiente controbatte: siamo solo noi a consegnare la vita alla morte, sbagliando a impostarla (cf. 1,12). Dio infatti "non ha creato morte" (come sarebbe forse meglio tradurre il v. 13), non ha costruito la sua creazione in modo che essa porti morte, ma vita: le creature non sono portatrici di morte ma di vita, in esse non si cela alcun veleno, alcun potere mortifero (cf. 1,13-14). Diversamente, Dio non avrebbe potuto godere della sua creazione. In realtà, nessuna morte può prevalere sulla "giustizia", cioè sulla comunione con Dio (cf. 1,15). Se anche ciò sembra accadere, si tratta solo di apparenza (cf. 3,2-3). Se siamo creati da Dio a sua immagine, siamo fatti per la vita, a immagine della sua eternità. Creando, Dio ha impresso nell'uomo una tensione verso la vita, e a una vita non soggetta alla morte, vita eterna. A meno che non ci si metta dalla parte della morte, non si "faccia alleanza" con essa (1,16) e, ritenendola amica, la si chiami a regnare su noi, dandosi da fare a cercarla (1,12). Certo, si può scegliere di "appartenere" alla morte (1,16; 2,24, alla lettera "essere della sua parte"); e allora si farà esperienza di che cosa essa davvero significhi. La morte dunque non fa affatto parte del progetto creatore, è invece risultato del cattivo uso della libertà umana. Ma non soltanto: essa è anche frutto dell'"invidia del diavolo", prodotta dall'ostilità di forze spirituali maligne, che intendono distruggere l'opera di Dio e fare della creazione precisamente il "regno dell'Ade" (1,14). Quando si sceglie il male si fa proprio il progetto demoniaco, si entra in un progetto ben più ampio, profondo e tenebroso di quel che non si pensi, abisso di cui ci si rende conto appieno soltanto quando esso ci abbia inghiottiti. Lo Spirito di sapienza conferisce una crescente percezione della netta differenza tra le due vie. Quando essa, all'opposto, si indebolisce, talora arrivando addirittura a scambiare la vita per morte e viceversa, si è in quella che il nostro autore chiama l'"empietà". "Due sono le vie, una della vita e una della morte, e fra queste due vie la differenza è grande", così si apre un catechismo della chiesa antica (Didaché 1,1). La Sapienza ci ammonisce: "distingui bene, respingi la morte, prendi la via della vita". I commenti di don Marco sono pubblicati dal Centro Editoriale Dehoniano - EDB nel libro Stabile come il cielo. |