Omelia (28-06-2009)
Marco Pedron
Passaggi di donne

Nei vangeli di queste domeniche Gesù deve passare ad un’altra riva o compiere uno spostamento. Non è solo un passaggio e uno spostamento fisico, e lo capiamo da come Gesù in queste narrazioni affronta la questione in tre modi diversi.
La vita è fatta di distacchi, di passaggi, dove si lascia un posto per andare verso un altro. Quando avviene questo si scontrano le due forze dell’uomo: la forza conservativa e la forza progressista. Una forza dice: "Stai qui, non muoverti. Qui sei al sicuro, perché andare a rischiare? Perché mettersi in pericolo? Qui già conosci il tuo territorio, il tuo spazio, le persone; cercare, cambiare, conoscere è pericoloso".
Allora a noi viene la voglia di rimanere fermi, di non crearci problemi, difficoltà, di stare nel nido. Abbiamo il lavoro, la famiglia, i nostri figli, perché, in fin dei conti, dovremo cercare qualcos’altro? E’ un’istanza più materna che dice: "Stai a casa piccolo mio perché il mondo è pericoloso; stai qui con la mamma che ti proteggerà sempre; stai con me che ti farò da chioccia". Ma l’uccello che sta sempre nel nido, che non impara ad arrangiarsi da solo, ha desideri insoddisfatti: quello che andava bene prima adesso non va più, sentiamo che manca qualcosa, che altri bisogni, altri spazi, devono essere aperti. E’ il richiamo della Vita che vuole che diventiamo sempre più noi stessi e che sempre di più ci immergiamo in lei. Allora bisogna andare oltre. Ecco l’altra forza che ti spinge ad uscire e che ti dice: "Fuori, cerca, costruisciti, divieni, diventa te stesso, diventa ciò che la Vita vuole per te".
In questo suo uscire, passare, Gesù deve affrontare tre passaggi duri e ostici. Il primo, raccontato domenica scorsa, sono gli imprevisti. Il mondo non è un materasso e neppure una culla. La vita è un luogo dove tempeste, eventi duri, scontri, lotte, accadono. Eppure sono proprio le difficoltà che ci fanno accedere alla nostra forza e alla nostra fiducia. Devo imparare non a evitare le tempeste perché altrimenti sarò sempre in fuga dal mondo e dagli altri.
Un uomo dice: "Io non riesco ad essere cattivo", "cattivo", per lui vuol dire far valere le proprie ragioni. Da una parte è comprensibile, ma così facendo si è in balia di tutti. Vuoi rimanere così o vuoi imparare a farti valere?
Una donna dice: "Io non riesco ad arrabbiarmi". Ho capito, ma se non ti arrabbi come fai a difenderti? Come fai a farti rispettare? Vuoi dire sempre di "sì" perché hai paura di questo sentimento?
Un’altra donna: "Io non voglio più essere abbandonata". Comprensibile, ma se non affronti questa paura rimarrai sempre da sola. Ne vale proprio la pena? Devo imparare ad affrontare le tempeste, a starci dentro.

Il secondo passaggio è quello di oggi: prendere coscienza di ciò che si è, tenere quello che di buono ci è stato dato e lavorare su di noi per buttar fuori ciò che ci fa male, così da costruire la nostra vita.
La mia vita è nelle mie mani, nelle mie scelte e nelle mie responsabilità.
Questo vuol dire essere adulti: "O.k. sono così, ho ricevuto questo e non dipendeva da me; adesso decido io".
E’ il passaggio dal bambino all’adulto. Il bambino si aspetta tutto dalla mamma: "La parrocchia... il governo... il comune... dovrebbero fare così... ". L’adulto, invece, fa in prima persona.

Il terzo grande passaggio lo sentiremo domenica prossima: liberarsi dai condizionamenti e soprattutto dal giudizio dei tuoi familiari e da quelli che ti amano. Perché se vivi tentando di accontentare chi ti ama tu non vivi. Sei ancora il bambino che tenta di far felice il papà e la mamma per avere la loro approvazione.

Nella prima parte del vangelo di oggi, si parla di un uomo e di sua figlia. Lui è il capo della sinagoga, lui è una persona importante in paese e sua figlia dev’essere l’orgoglio del papà. Perché una figlia è lo specchio dei genitori.
Sei un avvocato, un medico, un laureato, un insegnante: tu che sai tante cose e che la gente ti stima, tu non puoi avere un figlio come gli altri. Il tuo dev’essere un modello, "più" degli altri (perché tu ti consideri più degli altri). Tuo figlio dev’essere il più bravo, il più educato, il più intelligente, il più sportivo, quello che eccelle di più, il più bello, ecc. Ma tuo figlio è solo un bambino, come tutti.
Quanti genitori dicono: "Mio figlio è già un ometto. Parla e fa come un grande!". E ne vanno orgogliosi. Oddio, che dramma! Dovresti proprio chiederti dov’è finito il bambino? Hai costruito un palazzo senza fondamenta.
Un bambino al ristorante si muove e gira per i tavoli. Finisce addosso ad una persona seduta che mangia. Il padre si alza e lo sgrida davanti a tutti (umiliazione) e gli dice: "Guarda che figlio che abbiamo!". Il bambino dopo un po’ riprende coraggio e ricomincia a girare. Ma, ovviamente, finisce addosso ad un’altra sedia. Allora il padre si alza, lo prende con forza e gli tira quattro ceffoni. Il bambino piange e il padre commenta: "Così adesso piangi per qualcosa" (frase che non centra niente! Ma che giustifica il comportamento del padre). Il bambino non fa più nulla per tutta la serata. Prima di andarsene il padre gli dice: "Vedi che ti servivano quattro sberle, sei proprio stato un bravo bambino. Sono proprio orgoglioso di te, così ci si comporta in giro". Quel bambino ha guadagnato l’approvazione ma ha perso la propria vitalità. E’ diventato "bravo", ma ha rinunciato a sé e si è adattato.
Giairo parla di sua figlia e la chiama "figlioletta" ma sua figlia ha dodici anni e a quell’età si diventa adulti in Israele. La tratta ancora come la sua bambinetta, ma non è più sua la sua bambinetta, non è più il suo giocattolo. "Sono così belli da piccoli!": attenzione, non sono dei giocattoli con cui ci divertiamo. Sono belli perché fanno quello che vuoi tu o sono belli perché sono unici?

Alla fine del racconto Gesù ordina di darle da mangiare. Il cibo è la vita, il nutrimento, la voglia di vivere. Questa ragazza, diremmo oggi, era un’anoressica, non aveva più voglia di vivere, di mangiare, perché era soffocata dai legami familiari. E’ un particolare molto interessante, come pure il fatto che Gesù prenda con sé non solo il padre, ma anche la madre, nella stanza dove giaceva la ragazza. Questa figlia (in genere avviene così per tutte le anoressiche) respingeva anche sua madre, non voleva quel nutrimento (non mangio) ma non riusciva ad ammetterlo e lo simboleggiava con la malattia.
All’inizio del racconto si parla sempre della "figlia di Giairo". Ma Gesù alla fine la chiamerà: "Talità, fanciulla", donna. Non sei più bambina, cresci, divieni, dispiegati.
Quanti genitori dicono ad altri: "Gustateli finché sono piccoli perché dopo da grandi, caro... sono solo problemi". Per forza: perché da piccoli fanno come noi gli diciamo, ci obbediscono! Ma poi crescono e vogliono dire la loro e vogliono provare le loro scelte e le loro esperienze. Allora non li controlliamo più, allora ci sfuggono, allora emerge il nostro stile educativo. Quello dittatoriale dice: "Finora mi ha obbedito, adesso non riesco più a farmi obbedire, che si arrangi". Questo stile fa crescere dipendenza e paura, sottomissione e ribellione. Quello democratico dice: "Adesso finalmente possiamo discutere e parlarne e confrontarci". Ma questo è possibile solo con genitori maturi e cresciuti; questo stile fa crescere fiducia e amore.
Quanti padri quando la figlia arriva all’adolescienza la rinnegano. Finora era la "loro bambina" ma adesso la loro bambina guarda altri ragazzi, si scontra con il padre, non accetta più quello che prima accettava, non vuole più il "bacetto" della buona notte. Se prima il padre era il suo mito adesso non lo è più. Allora il padre si sente rifiutato (e lo è!) e la lascia, si disinteressa di quello che lei fa. Altri padri non accettano che la figlia diventi grande, la seguono, la controllano in tutto e tutto è "no": "Camposcuola no! Uscire no! Festina no! Questo no, quell’altro no!". "E perché no papà?". "Perché ho detto di no!". (sono le tue paure e le tue difficoltà di riadattarti alla nuova situazione: non è più solo tua figlia, ma sta diventando una donna).

Questa ragazza vuole crescere, vuole diventare donna, adulta, grande, autonoma. Suo padre la sta uccidendo, la sta soffocando, non la vuole lasciare, non è in grado di perderla. E se non sei in grado di "perdere" tuo figlio lo perderai davvero perché lo "ucciderai".
La figlia non si regge sulle proprie gambe, non sta in piedi, non può confidare su di sé perché suo padre la soffoca: decide tutto lui (è il capo della sinagoga, lui sa!), la dirige; lui sì che sa quali scelte sono buone per lei.
E’ chiaro che questa figlia deve staccarsi da casa sua, deve tagliare il cordone ombelicale per poter crescere. E’ chiaro che per lei è difficile perché ama suo padre. Vuole andarsene ma non vorrebbe farlo star male.
Non è facile per i nostri adolescenti dirci di no, mettersi contro di noi e opporsi. Perché ci vogliono bene, perché non vorrebbero deluderci, perché hanno bisogno di noi. E se noi glielo facciamo pesare potrebbero non farlo mai. Giairo dev’essere rinnegato da sua figlia (deve "morire" dentro di sé) perché altrimenti non potrà trovarsi nessun altro uomo né potrà vivere la sua vita. Una donna quando suo figlio è diventato adolescente si è ammalata di cancro. E diceva sempre a suo figlio: "Non mi lascerai mica a casa da sola, vero? (E suo marito dov’era?)". Il figlio di fronte ad una situazione del genere come faceva a dirle di no? Così lei aveva trovato il modo per tenerlo sempre con sé e per non sentirsi sola.
Ma è ancor più chiaro che Giairo la deve lasciare andare. E per lui lasciarla andare è come morire.
Sua figlia "deve morire" per suo padre (e così infatti avviene nel vangelo). Cioè Giairo deve accettare che non è più la sua bambina ma che è una donna. E’ una perdita. E la guarigione della figlia avviene solo perché suo padre si inginocchia davanti a Gesù, riconosce, cioè, che la malattia della figlia lo riguarda, che c’entra anche in lui in quel disagio e gli chiede aiuto.
La guarigione avviene solo dopo che la figlia è morta. Gesù non fa sconti a Giairo: ti devi distaccare da tua figlia. Questo deve avvenire e avverrà, altrimenti lei morirà. Giairo deve accettare questa "morte" dentro di sé. Persa la figlia adesso si ritrova davanti con una donna che cammina con le sue gambe, che "è passata".
Amare è far diventare grandi, adulti, indipendenti, autonomi. Amarsi è diventare grandi, adulti, autonomi, responsabili della propria vita senza delegare più a nessuno.

L’altra donna del vangelo, invece, soffre di dismenorrea (mestruazioni dolorose con perdita di sangue). Questa donna, come molte donne, ha dei problemi con la sessualità e con la sua femminilità.La sua religione le impedisce di guarire: non può toccare nessuna persona e tanto meno un maestro come Gesù: lo renderebbe impuro. E’ una donna che vive isolata perché rende impuro chiunque tocca.
C’è una religione che guarisce e c’è una religione che ammala.
Tutto ciò che era sessualità, tempo addietro, era peccato. La donna poteva entrare in chiesa dopo quaranta giorni che aveva partorito; se avevi avuto rapporti sessuali dovevi confessarti; c’era perfino la leggenda "che toccarsi faceva diventare ciechi"; avere rapporti prima del matrimonio era peccato grave e se eri incinta ma non eri sposata il matrimonio doveva essere celebrato alle cinque o alle sei di mattina; se guardavi una donna era peccato; se pensavi ad una donna era peccato; qualche sacerdote ti chiedeva cose solo inerenti alla sessualità mentre bypassava il resto. Di sessualità non se ne parlava mai, e se avevi un qualsiasi problema sessuale dovevi gestirlo da solo. La sessualità non era un piacere ma un dovere (coniugale) e l’unico scopo per viverla era fare figli. Una certa religione ha nient’altro che iniettato sensi di colpa terribili. Quante donne subivano! A quante donne veniva detto che era loro dovere coniugale. Certo non era così dappertutto e per tutti, ma quasi!
Come fede, come chiesa, bisogna avere il coraggio di tornare a parlarne non solo per stabilire se prima o dopo il matrimonio (riduzione banale). Avere il coraggio di dire che la sessualità è la forza, l’energia più forte che come uomini possediamo. Un’energia dirompente, intensa, passionale, esplosiva e per questo fa paura e va gestita bene. Ma è energia di vita. Dobbiamo capire cosa accade, cosa c’è in gioco, dobbiamo entrare in quest’argomento così vitale per l’uomo e per le donne. Nella relazione sessuale nasce la vita: se non c’è Dio qui, in quale altro posto c’è? Nella sessualità noi sperimentiamo la forza creatrice dell’Universo, l’intensità e l’unione più grande di un rapporto. Se non c’è Dio qui!!! Nella sessualità si innescano le paure più grandi: di essere invasi, rifiutati, traditi, di non lasciarsi andare, di non essere all’altezza, di essere vulnerabili; emergono la nostra aggressività, le nostre ossessioni e perversioni: se non c’è bisogno di Dio, di guarigione, di comunicazione, di aprirsi, qui!!! Nella sessualità si vivono le unioni più profonde e le divisioni più grandi: se non c’è bisogno di confronto, di relazione umana ed evangelica, di potersi esprimere qui!!!
Credo che una certa paura di un certo mondo religioso rifletta la propria paura della sessualità.

L’emoroissa è dissanguata non solo perché perde sangue ma perché ha perso tutti i suoi averi. E’ una donna che dà, che ha fatto un sacco di cose per gli altri, che si "è fatta in quattro per gli altri".
Il sangue è la forza vitale dell’uomo: senza sangue si muore! Il suo sangue è la sua affettività, i suoi sentimenti che dà ma dai quali non riceve niente. Il suo sangue versato è il simbolo di tutto quello che lei spende, dà, versa per gli altri ma che non crea e non fa nascere niente. Questa donna ha dato la sua vitalità a tante persone ma non è felice, anzi è ammalata, triste, insoddisfatta e sola. Perché ha sempre dato per ricevere. Dà per avere amore, per avere attenzioni, per essere riconosciuta. Dà molto, ma lo fa per ricevere.
Ci sono due modalità di dare: c’è chi dà perché è pieno e c’è chi dà per ricevere.
Chi dà perché è ricolmo, lo fa con passione, con entusiasmo e nasce dalla ricchezza del suo cuore. Non chiede niente, quindi non ha pretese, non colpevolizza se gli altri non fanno altrettanto e non fa la vittima se gli altri non lo fanno. Lui dà perché è sovrabbondante.
Chi dà per ricevere, invece, ha bisogno di affetto, di attenzioni, di riconoscimento. E siccome non è in grado di chiedere, fa e si distrugge, "si disfa", per averne un ritorno. Siccome il suo cuore è vuoto ha bisogno assoluto di ricevere per cui il suo dare è sempre contorto: gli altri non lo fanno mai bene, non basta mai, non fanno come vuole lui, ha sempre da ridire.

Ciò che colpisce dell’emoroissa è il suo coraggio: infrange le regole e fa ciò che non si poteva fare: tocca Gesù. Ciò che fa è sfrontato, ardito, pericoloso; è una donna che vuole vivere.
Ciò che colpisce è il suo credere di poter essere guarita, il suo non adattarsi alla sua condizione. Gesù le dirà alla fine: "La tua fede ti ha salvato". Cioè: è per questo coraggio, per questo credere al di là di tutte le sconfitte e le delusioni precedenti che tu sei guarita. Perché tu hai dato fiducia alla vita che c’era in te e non alla regola che la bloccava, sei guarita.
E Gesù? Gesù le dà proprio ciò di cui ha bisogno: una forza che da lui passa a lei.
Finalmente, forse per la prima volta, questa donna trova accoglienza, trova qualcuno da cui ricevere, qualcuno che non le chiede più solo di dare ma dal quale può finalmente ricevere amore e riconoscimento.
Ma Gesù chiede: "Chi mi ha toccato?". Gesù le chiede di uscire allo scoperto, di legittimarsi il suo bisogno di amore, i suoi impulsi e i suoi desideri.
E la donna deve venire fuori davanti a tutti e affrontare il giudizio della gente. Se prima gli si è avvicinata da dietro, di nascosto, adesso deve farlo davanti e davanti a tutti. E la vita torna a circolare dentro di sé, e possiamo esserne sicuri, anche fuori di sé.

Io sono vita. La vita vuole circolare liberamente in me. La vita vuole uscire ed esprimersi da me.
Metti in circolo la vita che hai dentro. Io sono vita che vuol vivere.
Io ho bisogno di amare; ho bisogno di dire a qualcuno: "Ti amo, ti voglio bene, sei importante per me".
Io ho bisogno di essere amato, che qualcuno dica a me: "Ti amo, ti voglio bene, sei luce per i miei occhi".
Io ho bisogno di affetto: ho bisogno di toccare e di essere toccato, di accarezzare e di essere accarezzato, ho bisogno che l’amore che vive in me esca attraverso le mie mani, il mio corpo, i miei gesti e le mie parole.
Io esisto e ho bisogno di esprimermi. Io ho bisogno di sentire che ci sono, che posso esprimermi, che posso scegliere, che posso plasmare la mia vita.
Io ho dei sentimenti dentro di me e non posso lasciarli languire.
Vita è il mio pianto: ho bisogno che le lacrime solchino il mio volto perché in certi giorni soffro.
Vita è la mia rabbia: ho bisogno che la mia rabbia, il mio "no" a ciò che non mi va bene, esca fuori.
Vita è lo stupore che porto dentro: ho bisogno di fermarmi e di congiungere le mani quando l’invisibile si fa visibile, quando la bellezza si dipana davanti ai miei occhi, quando la tenerezza tocca il mio cuore.
Vita è la felicità che ho dentro: io ho bisogno di cantare, di danzare, di ballare, di ridere e di sorridere.
Vita è creare: io ho bisogno di fare della mia vita qualcosa di utile, che la mia vita faccia nascere altra vita.
Vita è chiedere aiuto: io ho bisogno di sentire la presenza, la vicinanza, l’accompagnamento e l’amore di qualcuno per me.
La vita mi abita ma non può vivere se non la esprimo.
Devo avere come quella donna la forza di legittimarmi, di tirare fuori tutta la vita che c’è dentro in me e che vuol vivere. La vita per sua natura vuol espandersi, uscire, nascere. Bloccare la vita è morire.
Fede è far vivere la vita che c’è in me. E peccato è seppellire e lasciare morta la vitalità che Dio ha messo in me.
La qualità della vita è la vitalità. Senza vitalità si è come un mare senz’acqua o un campo senza terra. Senza vitalità si è come un ramo secco attaccato su di un albero: si aspetta solo che cada.

Una ragazza di terza media nel suo compito d’italiano ha scritto: "Vivendo e crescendo con i miei genitori credevo che il loro amore non morisse mai. Immaginavo che fosse come un grande albero pronto a sfidare qualsiasi tempesta e soprattutto il tempo. Invece mi sono accorta che non è così perché anche un grande albero può perdere lentamente i suoi rami e diventare secco. Mi hanno raccontato che i grandi amori, come gli alberi, non muoiono per un colpo di vento o per un po’ d’acqua in meno. Muoiono se li fai morire dentro, com’è accaduto a mio padre e a mia madre. Non sono cattivi e non litigano neppure spesso. Sono semplicemente morti dentro. Sono vite senza vita". Non è terribile?!

Due vecchietti sposati da cinquant’anni sono seduti e aspettano in stazione il treno. Sulla panchina di fronte a loro due innamorati. I due anziani osservano la giovane coppia in silenzio. Il ragazzo abbraccia la ragazza con tenerezza e la bacia con trasporto. L’anziana donna, con gli occhi che brillavano, sfiorò il marito con la mano e gli sussurrò: "Potresti farlo anche tu!". L’anziano uomo la guardò sdegnato: "Ma se non la conosco neanche!". (Neppure gli era passato in mente che lei parlava di loro e non della giovane coppia).

Quanta tristezza e vuoto c’è nelle parole: "Non mi tocca più... non mi guarda più" o nell’espressione: "Io non provo più nulla per niente". Rapporti, vite, senza linfa', senza vitalità. Si è persa la vita!


Pensiero della Settimana
Per quanto secco o arido tu sia: la vita non muore mai.
Per quanto vuoto tu sia: la vita non muore mai.
Per quanto insensibile o freddo tu sia: la vita non muore mai.