Omelia (26-07-2009) |
Il pane della domenica |
Gesù, pane per tutti Distribuì ai presenti quanto ne vollero 1. Se c’è un miracolo da considerarsi come il più importante tra i tantissimi operati da Gesù, non è la guarigione del cieco nato e neanche la risurrezione di Lazzaro, ma questo che ci è stato appena riproposto: la moltiplicazione dei pani. Ce lo indica un dato indiscutibile: è l’unico miracolo che viene riportato da tutti e quattro gli evangelisti. Se poi ci domandiamo perché essi vi attribuiscano tanto peso, la risposta la troviamo nella conclusione del brano appena proclamato, in cui s. Giovanni annota: "Allora la gente, visto il segno che Gesù aveva appena compiuto, cominciò a dire: Questi è davvero il profeta che deve venire nel mondo!". Il miracolo è un "segno" che deve essere letto simbolicamente, altrimenti si cade nell’equivoco, cosa non infrequente nel quarto vangelo. Ad esempio, nell’episodio della Samaritana, presso il pozzo di Sichem, la donna pensa all’acqua materiale, quella che viene dalla terra; Gesù invece allude all’acqua dello Spirito, che viene dal cielo. Ogni cosa non è solo quello che è, ma rimanda ad altro. A differenza dell’animale, l’uomo è capace di andare oltre la crosta delle apparenze e di cogliere l’anima interiore delle cose. Così, c’è mangiare e mangiare: per il cane o il gatto è semplicemente un ingoiare cibo, per gli uomini mangiare è stabilire una relazione. I fast food, consumato in solitudine, soddisfa la fame dello stomaco, non quella del cuore. Saremo capaci ora di aprirci alla rivelazione di Gesù o ci capiterà quanto avvenne ai suoi discepoli che non lo riconobbero quella notte sul lago in tempesta, perché "non avevano capito il fatto dei pani, essendo il loro cuore indurito" (Mc 6,52)? 2. Per questo dobbiamo innanzitutto ricostruire il contesto del miracolo: Gesù viene seguito da "una grande folla, vedendo i segni che faceva sugli infermi". La gente è attratta dalla potenza misericordiosa di Gesù che si preoccupa dei malati e li guarisce. Ma Gesù non è solo un guaritore; è e resta un maestro: per questo sale sul monte, come Mosè che era salito sul Sinai per accogliere la legge del Signore per Israele. Gesù però non va sul monte per ricevere la parola di Dio, ma per donarla: è per questo che si pone a sedere, non tanto perché sia particolarmente stanco, ma perché questo è l’atteggiamento del maestro quando insegna - sale, per così dire, in cattedra - come del resto Gesù aveva già fatto quando proclamò la nuova legge delle beatitudini: "salì sul monte e si mise a sedere; poi prendendo la parola, cominciò a insegnare" (Mt 5,1). Tornando al racconto di Giovanni, è opportuno rimarcare anche l’annotazione temporale: era vicina la Pasqua, siamo quindi in primavera. Ma ancora una volta dobbiamo andare oltre il puro dato cronologico. Questa indicazione ci riporta all’indietro, alla grande storia dell’esodo e ai tanti segni che Dio aveva operato con Mosè per la liberazione degli Ebrei e durante il loro cammino verso la terra promessa. Ma il riferimento alla Pasqua ci spinge anche in avanti e anticipa simbolicamente il dono che Gesù farà del suo corpo nell’ultima cena. Il secondo passaggio nel racconto dei pani riguarda la discussione tra Gesù e i discepoli. Il Maestro porta allo scoperto i retropensieri dei suoi: la gente ha fame? Bisogna comprare il pane. Filippo, uno dei Dodici, fa un rapido calcolo: organizzando una colletta, si potranno raccogliere al massimo duecento denari, che corrispondono a duecento giornate lavorative di un bracciante agricolo; ma poi con il ricavato si potrebbe distribuire solo un pezzetto di pane per ciascuno degli oltre cinquemila presenti. I discepoli ragionano in termini di mercato, ma Gesù propone un’altra strada: alla logica del comprare sostituisce quella del dare. In effetti un ragazzo è pronto a mettere a disposizione di Gesù il suo zainetto: quei pochi panini e quei due pesciolini sono niente per tanta gente, secondo Andrea, ma secondo Gesù sono tanto per tutti, e ce ne sarà d’avanzo. Ecco il "segno": se cinque sono i pani e cinquemila le persone, un solo pane basterà per mille; il tutto di uno - anche se pochissimo - sarà il molto dei tantissimi. Il resto del racconto lo conosciamo: Gesù ordina ai discepoli di farli adagiare: vuole che la gente dia vita ad una grande, bella assemblea conviviale. Non si tratterà né di un fast food né di un assalto all’arrembaggio: tutti devono mettersi non semplicemente "seduti", ma "adagiati": è il banchetto solenne, quello messianico, di cui avevano parlato i profeti. Poi Gesù compie quei gesti "eucaristici" che anticipano la sua cena: prese i pani, rese grazie al Padre (lett. fece eucaristia), li distribuì ai "commensali". Sono i verbi della cena che danno al pane di Gesù il suo significato più profondo e più vero. Il pane è Gesù stesso; facendo la comunione con lui, riceviamo la sua vita in noi e diventiamo con lui figli del Padre e fratelli tra di noi. Il dono, che Gesù offre, colma al di là di ogni misura: è pienezza di vita per l’uomo affamato. L’annotazione finale delle dodici ceste piene di resti non è un dato marginale e non indica solo la sovrabbondanza del cibo offerto da Gesù. Il numero dodici fa da vettore di senso: la comunità cristiana sa che il Pane di vita è custodito dalla Chiesa, il nuovo Israele, fondato sulle dodici colonne dei dodici apostoli del Signore. 3. Riletto così, il segno dei pani ci fa da specchio, mentre pone più di una domanda, a cominciare da quella centrale: abbiamo capito il "fatto dei pani"? Partecipare all’eucaristia significa rientrare nella logica di Gesù, che non è una logica di proprietà - ognuno per sé - o di quantità - ci vogliono troppi soldi - o di efficienza: con il molto di pochi i problemi si risolvono prima e meglio che con il poco di molti. La logica di Gesù è la logica della gratuità, della condivisione totale: è la logica dell’amore. Per quanto poveri, tutti siamo abbastanza ricchi per avere almeno qualcosa da dare. Andare a "fare la comunione" significa la disponibilità a fare comunione. La nostra cultura marcatamente individualista è segnata da un edonismo ossessivo che ha eretto il piacere a idolatria e ha ridotto la sessualità a gioco e consumo: questo accanimento edonistico - il piacere sempre e comunque - crea un mare di sofferenze con i tristi fenomeni delle famiglie disgregate, dei coniugi abbandonati, dei figli contesi o lasciati soli, e con l’abbrutimento della pornografia, la vergogna della prostituzione, l’orrore della pedofilia. Aggiungiamo poi tutti i problemi e i drammi generati da un materialismo economicista sempre più sfrontato e aggressivo; assommiamo le enormi ingiustizie e violenze prodotte nella vita dei singoli e dei popoli da una concezione della libertà svincolata dalla verità e da ogni norma morale. Sono problemi planetari, ma hanno una pesante ricaduta nelle nostre famiglie, nei nostri quartieri, nelle nostre parrocchie. Madre Teresa osservava: "La gente è affamata d’amore, perché siamo tutti troppo indaffarati". Cosa possiamo fare noi? I lamenti sterili non servono, i proclami retorici non risolvono. Ma se guardiamo bene nel nostro zainetto o nella nostra borsa, abbiamo certamente qualche ora di tempo da donare, qualche talento da offrire, qualche competenza da mettere a disposizione. Insomma chi di noi non ha i suoi "cinque pani e due pesci"? Se siamo disposti a metterli nelle mani del Signore, basteranno e avanzeranno perché nel nostro angolo di mondo ci sia un po’ più di fraternità, di pace, di giustizia e, perché no?, un po’ di più di gioia. Commento di mons. Francesco Lambiasi tratto da "Il pane della Domenica. Meditazioni sui vangeli festivi" Ave, Roma 2008 |