Omelia (12-07-2009) |
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COMMENTO ALLE LETTURE a cura di don Gianni Caliandro "Vattene", viene detto ad Amos dal capo dei sacerdoti vicini al re, che a quest’ultimo dicono solo ciò che egli vuole sentirsi dire, tradendo la propria missione e il proprio ruolo e finendo per essere solo dei cortigiani (I lettura). "Vattene" era la stessa parola detta ad Abramo all’inizio della sua avventura di fede da Dio stesso (Gen 12), che lo invitava a mettere una distanza tra sé e la propria casa, la propria famiglia, la propria terra. La parola era la stessa, ma il suo significato, in ciascuno dei due casi, era esattamente l’uno l’opposto dell’altro. Ad Abramo veniva indicato un cammino per se stesso, un viaggio che era allo stesso tempo di ricerca di sé e di ricerca di Dio, un viaggio per il quale era necessario trovare il coraggio di intraprendere una strada personalissima, propria, singolare. Ad Amos viene detto invece di abbandonare tutto ciò, di preferire la tranquillità alla propria vocazione, e di smetterla di dire parole scomode che il potente di turno non vuole sentirsi dire, mettendo da parte il proprio pensiero, la propria fede, i propri ideali. Il "vattene!" detto ad Amos è, in realtà, un "ritirati!", una rinuncia, il "vattene!" di Abramo è invece una partenza, un inizio, una rinascita. Per questo Amos deve rispondere il suo "no!", ribadendo che la sua è una missione affidatagli da Dio stesso, che lo ha chiamato quando lavorava tra i campi e pascolava animali. Il "sì" di Abramo e il "no" di Amos sono in realtà la stessa scelta, la scelta di fedeltà a se stessi e a Dio che ti sta aiutando a trovare il tuo cammino personale. Anche nella nostra vita può accadere di essere davanti ad una scelta simile: quante sono le occasioni in cui siamo davanti ad un bivio: rimanere fedeli a noi stessi, alle nostre idee, alla nostra fede, magari dicendo dei no a qualche situazione, oppure preferire una maggiore tranquillità di vita, senza andare ad impelagarsi in qualche scomodo no, anche se il prezzo da pagare a questa tranquillità è il tradimento di ciò che crediamo nel profondo. Qualche settimana fa è venuto a parlarmi un giovane che fa parte di un gruppo giovanile parrocchiale, figlio di una catechista dell’iniziazione cristiana della stessa parrocchia. Era molto arrabbiato con sua madre, e quando gliene ho chiesto il motivo mi ha detto che qualche giorno prima gli era capitato di assistere ad uno scippo. Tornato a casa, dopo aver raccontato la cosa a sua madre, si è sentito dire da lei che forse era meglio non raccontare a nessuno la cosa, facendo finta di non aver visto niente. Se infatti avesse raccontato di aver assistito alla scena, di aver visto la targa della motocicletta su cui era lo scippatore, lo avrebbero costretto a testimoniare, e così si sarebbe esposto a possibili ritorsioni. Questo consiglio a "farsi i fatti propri" aveva gettato quel giovane nello sconforto, e lo aveva anche scandalizzato: ma come, la propria madre, sempre presente in parrocchia, sempre pronta a parlare dei valori del vangelo, dell’onestà e della giustizia, così brava a dire parole giuste ai ragazzi del suo gruppo di catechesi, ora a lui stava dicendo invece di ritirarsi, di non esporsi, di far finta di niente! È proprio così, per ognuno di noi: è facile essere se stessi, parlare delle proprie idee e dei propri valori, fino a quando tutto ciò non costa niente. Ma quando ti rendi conto che per rimanere fedele a te stesso e al tuo Signore dovrai pagare personalmente un prezzo, allora le cose cambiano. Allora devi decidere. Rimani te stesso, anche quando te la faranno pagare? O rimani te stesso solo fino ad un certo punto? Solo fino a quando questa fedeltà è astratta, innocua, disincarnata? Gesù chiede ai suoi discepoli (III lettura) di camminare nel mondo senza portare con sé molte cose: né pane, né sacca, né denaro nella cintura...né due tuniche. La garanzia del viaggio è lui stesso, e il suo amore per noi l’alimento del nostro cammino, anche nei tratti più aspri. Camminare attaccati ai soldi e alla bisaccia, prima o poi, ci porterà a tradire noi stessi. L’inno di San Paolo (II lettura) ci fa intravedere il nostro vero tesoro, la borsa a cui attingere, il pane capace di sfamarci: noi siamo stati scelti da Dio, destinati da Lui ad essere santi, predestinati ad essere figli, gratificati nel Figlio amato, suoi eredi. Basterà questa promessa a non farci vacillare? Tutta questa realtà cantata da san Paolo si compirà in noi alla fine, nel momento della redenzione finale, ma di tutto è già anticipo e caparra lo Spirito Santo che ha messo su di noi il suo sigillo già ora. Allo Spirito chiediamo la forza, in questa eucaristia domenicale che celebriamo insieme, di saper compiere il nostro cammino esistenziale senza tradire noi stessi, e senza tradire il nostro Dio, nella fedeltà e nella perseveranza che sole ci fanno responsabili di noi stessi e della nostra fede. |