Omelia (12-07-2009)
don Maurizio Prandi
Legati a noi stessi o a Gesù

Stiamo cercando, in queste settimane, di capire qualcosa di più del nostro volto cercando di conoscerci e di riconoscere nella verità le dinamiche che ci abitano. Stiamo facendo questo lavoro importante attraverso l’aiuto che ogni domenica ci viene dall’ascolto della Parola di Dio, nella quale stiamo provando a cogliere come degli "opposti" che ci chiamano a fare delle scelte. Un cammino che ha portato in tre passi a leggere la nostra vita alla luce
1) delle tempeste che vengono dai successi e delle tempeste che vengono dagli accadimenti negativi,
2) dell’avere una identità oppure il restare confusi tra la folla,
3) dell’essere profeti nel nostro oggi oppure persone scontate.
La liturgia della Parola di questa domenica mi pare definisca il volto del cristiano e della chiesa attraverso anzitutto quel rapporto che si chiama fede. Tema questo che ha percorso un po’ tutti i vangeli delle ultime domeniche; quel chiamò a sé che oggi abbiamo ascoltato, possiamo provare a calarlo nella vita di tutti i giorni: Gesù chiama a sè per inviare. Si scorge qui il nostro essere chiesa. Anche qui è come se avessimo due strade di fronte: quella di legarci al potere, che bene ci illustra la prima lettura, oppure quella di legarci a Gesù. La strada del potere ci lega a noi stessi, ad una immagine e a dei privilegi da conquistare o da mantenere. Una strada sicuramente vincente, che ha dei ritorni sotto tanti punti di vista (economici, di visibilità) ma che ha l’effetto devastante di allontanare Dio dalla nostra vita. Il profeta Amos ci racconta di come il sacerdote Amasia sia diventato sacerdote del potere e il santuario non sia più lo spazio dell’incontro con Dio. A Betel non profetizzare più, perché questo è il santuario del re ed è il tempio del regno... ecco: nel tempio non risuona più la parola di Dio, ma risuona la parola del re. Questo succede ogni volta che una istituzione religiosa abbandona il suo stile di sobrietà e si compromette con i potenti della terra. Il santuario è tradito (don A. Casati), il santuario è profanato, sono profanati i sogni degli uomini ed è profanata la rivelazione che Dio fa di se stesso. A Betel non profetizzare più... Betel... Bet (se non ricordo male) in ebraico vuol dire casa, ed El vuol dire Dio... come dire: nella casa di Dio non profetizzare più! Dicevo che profanati sono i sogni degli uomini, perché Betel è il nome dato da Giacobbe al luogo in cui ha sognato la scala sulla quale gli inviati, i messaggeri di Dio salivano e scendevano: porta del regno, casa di Dio! Il luogo dell’apparizione è diventato santuario del re! La chiamata a sè dei Dodici da parte di Gesù invece, è una chiamata legata alla sua persona, perché, come è stato di lui (di essere l’inviato del Padre), così vuole che sia anche per i discepoli.
L’inviare non è soltanto una missione, ma nasce dal fatto che Gesù abbia chiamato a sè i Dodici. Guai se nella chiesa, nelle nostre comunità cristiane, non ci fossero queste due dimensioni, complementari ed essenziali a un tempo: la chiamata a sè del Cristo è una chiamata in vista della missione, e dicono che l’invio dei discepoli da parte del Cristo nasce da una comunione a cui il Cristo ci chiama, insieme con lui. L’equilibrio tra queste due dimensioni non è facile. A volte assistiamo, nella chiesa, a questo costituirsi di gruppi, di movimenti, chiusi in sè, che non colgono la necessità dell’annuncio e della missione, e quando lo colgono c’è il rischio che la missione sia più per legare al movimento e al suo fondatore (o fondatrice) che non al Signore Gesù. Alla stessa maniera cogliamo nella chiesa il rischio, a volte, di considerare l’andare più come frutto di nostre iniziative che non come frutto della ‘comunione’ che il Signore ci chiama a vivere con lui. Questo aspetto della comunione anche è molto importante: comunione con Gesù e comunione tra di noi, inviati, dice il vangelo a due a due per dire che tua sola forza è la parola del Signore che ti chiama e tua sola forza è l’amicizia di un fratello. Non puoi e non devi contare su altro.
Mi piace quello che scrive a questo proposito E. Ronchi: è importante andare a due a due, avere uno su cui contare, un amico almeno, che ti garantisca, che ti dica che tu esisti, che sei amato, che sei capace di relazioni positive, che non si crede da soli. Il primo annuncio dei dodici è la loro vita stessa, un evento di amicizia, un germe di comunità, la vittoria sulla solitudine. Una parola questa, che sento incrocia seriamente la mia vita: a settembre partirò per la missione che la Diocesi di Chiavari ha in terra cubana e vivrò per due anni insieme ad un sacerdote di Genova che conosco davvero poco... vivremo insieme, ma non per dare il buon esempio... credo innanzitutto per essere testimoni della comunione che ci lega a Colui che per mezzo del nostro vescovo ci ha detto: andate! Sarà così per tutti e due; all’inizio non potremo nemmeno contare sull’amicizia (perché non c’è ancora), faremo affidamento soltanto sulla promessa contenuta nella relazione che viviamo con Gesù. Che bello questo... un’occasione che mi è data per centrare la mia vita sull’unico essenziale, per ripetermi ancora una volta che vale la pena vivere in modo totalmente decentrato. Non sono un missionario, ma mi affido alla parola di qualcuno che mi dice di partire e di annunciare; potrò imparare qualcosa allora, ma solo, credo, ad una condizione: la missione dei discepoli, ci dice il vangelo di oggi, è tutta riferita a quella di Gesù, trova in quella il motivo e il modello. Don Daniele Simonazzi scrive, (e mi ci ritrovo in pieno): riferirsi a Gesù suppone, da parte del discepolo, una quadruplice consapevolezza: la consapevolezza di un’origine da Dio, cioè di una partenza voluta da un altro e non decisa da noi, di un progetto in cui siamo coinvolti, ma di cui non siamo i registi; la consapevolezza di uscire da sé e di andare altrove, in posti nuovi, perennemente in viaggio; la consapevolezza, infine, di possedere un messaggio da offrire nuovo e lieto.