Omelia (16-08-2009) |
Il pane della domenica |
La nostra Messa, la sua Mensa La mia carne è vero cibo, il mio sangue è vera bevanda Quando si celebra la santa Messa in occasione di qualche matrimonio o funerale, talvolta - a causa del penoso spettacolo a cui si è costretti ad assistere - scatta costernata la domanda: ma è questo il "memoriale" del Signore? E il pensiero corre inevitabilmente a quel rimprovero così crudo di s. Paolo ai cristiani di Corinto: "Quando vi radunate insieme, il vostro non è più un mangiare la cena del Signore" (1Cor 11,20). L’apostolo stigmatizzava aspramente un comportamento senza dubbio sconcio e gravemente "anti-eucaristico": anziché riunirsi insieme e mettere tutto in comune, si formavano gruppi e gruppetti separati che probabilmente corrispondevano alle differenti condizioni sociali; la disuguaglianza che sarebbe dovuta giustamente scomparire, veniva invece ad essere clamorosamente evidenziata. Un vero scandalo: l’eucaristia scadeva in parodia e finiva per diventare un disconoscere il corpo del Signore, un indegno mangiare e bere la propria condanna. 1. Con il vangelo odierno siamo sempre nel contesto del discorso di Gesù sul pane di vita. I giudei avevano mormorato perché Gesù, che essi vedevano uomo in tutto e per tutto come loro, si era accreditato come "disceso dal cielo", quindi come un vero essere divino. Ora si scandalizzano perché lo hanno appena sentito dire che la vita divina viene dal mangiare la sua carne di uomo. Anzi provocatoriamente il rabbi Galileo rincara la dose: bisogna anche bere il suo sangue. Il linguaggio di Gesù non poteva essere più ripugnante agli orecchi dei suoi interlocutori: il mangiare carne umana era, nell’Antico Testamento, cosa abominevole e segno della maledizione di Dio. Bere, poi, il sangue degli animali - e ancora di più il sangue umano - era severamente proibito: il sangue è vita, e la vita appartiene a Dio; per questo nei sacrifici il sangue doveva essere sparso sull’altare del Signore, a cui appartiene la vita. Per Gesù, invece, il mangiare e bere la sua vita porta un frutto grande: il dimorare in lui, l’abitare l’uno nell’altro, in una piena, reale comunione d’amore. Una comunione che non è fusione indefinita né ambigua con-fusione, un annullamento vicendevole, un reciproco cannibalismo per cui uno sopprime l’altro. Come Gesù vive grazie al Padre, vive cioè da lui, di lui, per lui, così è per chi mangia la sua carne. La comunione è assimilazione: mangiando lui, diventiamo come lui: vivi per amore, vivi in eterno. 2. Da varie domeniche il vangelo di Giovanni ci sta riportando il pensiero di Gesù sull’eucaristia. S. Paolo, scrivendo ai cristiani di Corinto, raccomandava ad ognuno di "esaminare se stesso", prima di fare la comunione al corpo e al sangue del Signore. Proviamo ad esaminare noi stessi, per vedere se la nostra idea di Messa corrisponde veramente alla verità che di questo sacramento ci propone la Chiesa. Forse può essere utile partire dalle obiezioni contro la santa Messa, quali si registrano nell’immaginario collettivo di tanti cristiani che non la frequentano o la frequentano solo sporadicamente. "A che serve la Messa? Io vado in chiesa quando me la sento, e se non c’è nessuno che mi vede, prego meglio". È una frase che viene condita spesso con un pizzico di commiserazione per quei poveri cristiani che a Messa ci vanno, perché non riuscirebbero proprio a liberarsi da una mentalità legalista e precettistica invece di instaurare con Dio un rapporto diretto, caldo e spontaneo. Ma per Gesù l’eucaristia non è una preghiera privata o una commovente esperienza spirituale: è un evento, un’azione; è il "memoriale", ossia una memoria che non commemora un fatto passato, ma lo rende presente: è l’evento della morte e risurrezione di Gesù, reso attuale qui e ora per noi riuniti nella sua santa cena. Certamente noi possiamo e dobbiamo pregare anche nella nostra camera, ma quella preghiera per quanto intensa e fervorosa, non è un "mangiare la cena del Signore". Un’altra obiezione che si sente spesso in giro è questa: "Anziché andare a Messa, io preferisco fare una buona azione: non è forse più utile ed efficace?". Del resto - si pensa - dove è scritto che quelli che vanno in chiesa sono migliori di quelli che non ci vanno? L’idea sottesa è che Gesù Cristo sarebbe venuto sulla terra per farci comportare da "brava gente", da persone educate e perbene; sarebbe venuto per insegnarci a compiere delle buone azioni. Il Signore invece si è incarnato per farci diventare uomini nuovi, per farci morire al peccato e risorgere a vita nuova. Ma è possibile a un cristiano vivere come Cristo, senza rimanere radicato in lui, senza crescere in una comunione sempre più intensa con il mistero della sua morte e risurrezione? E non ha detto Gesù che senza di lui non possiamo fare niente? E non ha pure detto al Padre che tutti dobbiamo essere una cosa sola altrimenti il mondo non crederà? E non è venuto a costruire una Chiesa che sia segno di salvezza per tutti? Una terza posizione si potrebbe esprimere così: "Io a Messa ci vado quando mi trovo in una situazione di particolare bisogno". Anche in questo caso è possibile ricostruire il pensiero soggiacente: Dio è onnipotente; certamente non lascerà mancare i suoi favori a coloro che lo rispettano, come è altrettanto probabile che non mancherà di farla pagare con qualche castigo a chi lo trascura. Così si va a Messa con la segreta intenzione di procurarsi qualche vantaggio o di sfuggire a qualche terribile flagello. Tant’è vero che la frequenza alla Messa va in proporzione diretta con qualche situazione particolare: quando si vuole offrire una preghiera di suffragio per la buonanima di qualche parente defunto; quando si va a chiedere la grazia di un posto di lavoro per il figlio o il nipote; quando si deve risolvere qualche pasticcio a livello affettivo. E magari ci si ricorda che in occasione dell’ultima biopsia siamo andato a Messa perfino in un giorno feriale. Ma è questo la Messa: una sorta di scongiuro portafortuna? 3. Ecco invece cos’è l’eucaristia: è la "ripresentazione reale, qui e ora, della morte e risurrezione del Signore", come la definisce il Catechismo dei nostri vescovi. "Ripresentazione reale", significa che non è una semplice commemorazione di quello che Gesù ha fatto nell’ultima cena, non è un puro ricordo emotivo della sua Pasqua. "Ripresentazione reale" perché il pane è realmente il suo corpo donato; il vino è realmente il suo sangue versato. Quindi l’eucaristia è la persona stessa di Gesù, nell’atto di donarsi interamente a noi come agnello immolato e vivente. La comunione eucaristica ha un carattere tutt’altro che intimistico e sentimentale. Far comunione con il Signore, crocifisso e risorto, significa donarsi con lui al Padre e ai fratelli; significa diventare un solo corpo e un solo spirito. Unendoci a sé, Cristo ci unisce anche tra di noi: come i chicchi di grano si fondono in un solo pane e gli acini di uva in un solo vino, così noi diventiamo uno in Cristo: un solo corpo, un solo spirito, una sola persona mistica. Esclamava s. Agostino: "Mistero di amore! Simbolo di unità! Vincolo di carità!". Commento di mons. Francesco Lambiasi tratto da "Il pane della Domenica. Meditazioni sui vangeli festivi" Ave, Roma 2008 |