Omelia (19-07-2009) |
don Daniele Muraro |
La perfezione La vita attiva ha bisogno di pause e sospensioni, sia per motivi fisici che spirituali. E a tutti i fedeli, non solo ai consacrati, la tradizione della Chiesa non ha mai smesso di raccomandare la pratica della preghiera e della meditazione. Spesso nel passato le due dimensioni, quella del fare e quella del contemplare, sono entrate in conflitto. Oggi poi sembra che per ritirarsi in disparte e stare con Dio non ci sia più tempo; forse non se ne sente neanche più la necessità perché non se ne capisce il motivo. Guardanoci attorno possiamo rilevare che tutti cercano un sollievo dalle fatiche quotidiane, sia nel calore della famiglia che nei divertimenti. Le prime forze ad esaurirsi sono quelle fisiche, ma esiste una spossatezza della mente e un avvilimento del morale che è parte integrante della stanchezza di ogni giorno. Perché fare del bene se non si viene riconosciuti e in qualche maniera gratificati? Per che cosa vale la pena di impegnarsi nella vita senza che ci si debba ricredere o peggio pentire? Che cosa è davvero bene per noi e per gli altri? Tutti siamo contemplativi, anche senza saperlo, quando ci guardiamo intorno, ci facciamo queste e altre domande e andiamo in cerca di risposte. Fin che si segue la monotona abitudine quotidiana i problemi restano per così dire confinati alla periferia; ma nella vita ci sono anche delle svolte, in cui è obbligatorio fare il punto della situazione: come sono arrivato fin qua e dove voglio andare? La differenza fra credenti e non credenti sta nei punti di orientamento. Chi non crede si fida solo di se stesso e avanza baldanzoso o più a tentoni, ma comunque senza cercare aiuto dall’alto. Chi crede invece resta in attesa di una risposta e la invoca da Dio. Quando Gesù inviò i dodici in missione risulta che nessuno di loro abbia protestato. Le restrizioni, abbiamo sentito la settimana scorsa erano severe, "né pane, né sacca, né denaro nella cintura" sandali ai piedi e restare senza cambio della tunica, ma tutti sono partiti con entusiasmo. Ad un certo punto però gli Apostoli sentono il bisogno di ritornare da Gesù e si stringono intorno a Lui. Immaginiamo una gara per raccontare prima degli altri ciascuno che cosa aveva fatto: gioie e fatiche. Il racconto non ci dice che Gesù prima di mandarli avesse fissato loro una scadenza e un luogo di appuntamento. È verosimile che sia andata così; il rientro però fu anche spontaneo. Da quel che comprendiamo gli Apostoli non si fecero attendere, non perché le cose fossero andate male, anzi era stato un gran successo, ma perché erano veramente stanchi, e Gesù se ne accorge subito. Egli organizza un tempo di riposo per permettere ai suoi apostoli di recuperare le forze fisiche, ma anche quelle morali e spirituali. Di fronte all’imprevisto però Gesù non si scompone. Una grande folla li aveva preceduti nel luogo del loro ritiro. Gesù sa provare compassione non solo dei suoi più stretti collaboratori, ma anche di tutta la gente che veniva a cercarlo. Anch’essi volevano trovare riposo per le loro anime, sentire una parola di conforto, di incoraggiamento, un’istruzione. Il primo insegnamento Gesù lo dà proprio con il suo comportamento ed è una lezione semplice, vera e sempre valida: al di sopra di tutto, anche della necessità del riposo, sta la carità. Con la sua reazione Gesù ci dimostra che pensare a Dio non vuol dire estraniarsi dal mondo. Ogni persona porta impressa in sé l’immagine del Creatore. Gesù la onora. Ma qui sta il punto: Gesù era capace di riconoscere al volo per così dire il sigillo di Dio in ogni prossimo che incontrava. Per noi invece è più difficile. Non conosciamo perfettamente Dio e non possiamo apprezzare quello che viene da Lui. Ecco la necessità ogni tanto di staccare lo sguardo dalle cose della terra e di rivolgere gli occhi della mente verso l’alto. A ben vedere nel racconto di oggi non si parla neanche di miracoli chiesti e ottenuti; fin da subito Gesù promuove l’incontro ad un livello spirituale e come dice il Vangelo si intrattenne a "insegnare loro molte cose". Torniamo a noi. Quando il problema era garantirsi il minimo vitale per la sopravvivenza pregare e meditare poteva considerarsi un lusso, eppure lo si faceva ugualmente. Oggi non è più così; è cambiato il sistema, le possibilità materiali si sono ampliate a dismisura, ma la pratica spirituale è calata vistosamente, pur non essendone stata revocata la necessità. La conclusione è che se per fermarci e dedicare un po’ di spazio a Dio aspettiamo di avere tutto a posto e sotto controllo noi non pregheremo mai. Dopo la comunione la liturgia ci proporra di avanzare una preghiera diversa dalle solite, la richiesta a Dio che Egli ci faccia "passare dalla decadenza del peccato alla pienezza della vita nuova". La liturgia ci fa mirare al massimo della vita cristiana, la pienezza della vita nuova. Attraverso questa preghiera è come se la Chiesa stessa ci dicesse che non ci possiamo accontentare di meno. Questo è un dono che Dio vuole fare a tutti, senza distinzione, la condizione l’abbiamo sentito nel Vangelo è che siamo pronti a dedicare del tempo solo per Lui, per cercarlo, per ascoltarlo e per stare con Lui. |