Omelia (26-07-2009) |
don Maurizio Prandi |
Il discepolo: colui che non fa calcoli Il percorso che stiamo facendo, oramai lo sapete, è in ordine al delineare il volto del discepolo. Il discepolo, ci dicono le letture di oggi, è colui che offre a Dio le sue primizie. Venne un uomo, che portò pane di primizie all’uomo di Dio: venti pani d’orzo e grano novello che aveva nella bisaccia. Già questo mi pare importante e molto significativo: a Dio si offrono le primizie, ovvero non i pani di una scorta già in casa... i pani per così dire... sicuri: hai una scorta sovrabbondante e dunque puoi sbilanciarti a dare qualcosa. Sono le primizie, tolte quelle, non hai altro. Lo stesso vale per il ragazzo che offre i cinque pani d’orzo... l’orzo, che matura prima del grano è la primizia, ma questo non conta per il ragazzo, come non conta il fatto che quei pani siano tutto quello che ha. Scrive don Casati: E’ come se Dio, per moltiplicare, per moltiplicare i pani, avesse bisogno di qualcuno che dia le primizie, cioè di qualcuno che non calcoli. Da un parte si ricorda il bisogno di pane, cioè di vita, che c’è in una moltitudine grande di persone. Sono cinquemila persone che hanno fame, simbolo dell’umanità che ha bisogno di vita. Dall’altra ci sono cinque pani e due pesci, che sono molto poco rispetto alla necessità. Si potrebbe dire: prendiamo i cinque pani e i due pesci, li portiamo alla gente e li distribuiamo, il risultato è che rimangono tutti affamati. Il vangelo immagina un cammino diverso. I cinque pani e i due pesci, invece di essere portati alla gente, sono portati a Gesù, e da Gesù vanno incontro alle persone. Questo passaggio, secondo il vangelo, ottiene il fatto che quei cinque pani e due pesci diventano capaci di sfamare cinquemila persone e ne rimangono dodici ceste, perché ce n’è ancora per gli altri, con il segno evidentemente dell’abbondanza. Noi non riusciamo a soddisfare la fame di vita, di speranza, di amore che c’è nel cuore dell’uomo. Non ci riusciamo perché quello che abbiamo noi, come nostro possesso, rimane radicalmente povero... rimane nostro, non riusciamo a staccarcene... e non sfama perché abbiamo detto a tutti che è nostro e lo abbiamo dato (da bravi cristiani)... e non sfama perché abbiamo detto a tutti che siamo stati bravi a perdere tutto quel tempo per gli altri... e non sfama perché abbiamo bisogno di ricevere il premio della notorietà. Non mi risulta che il ragazzo del vangelo sia stato portato in trionfo dalla folla o dai discepoli (chissà che qualcuno invece quella sera non abbia mugugnato perché a causa della generosità di quel ragazzo gli è toccato ancora riempire dodici ceste di pane avanzato...). Però, dice il vangelo, se quel poco che hai lo porti al Signore e dopo lo fai arrivare alla gente attraverso il Signore, allora quel poco che hai diventa sufficiente, anzi, sovrabbondante. E’ una promessa. Ripeto, forse è per quello che il mio pane non sfama, non lo faccio passare attraverso Gesù perché, in fondo in fondo, deve essere chiaro che il merito è il mio! C’è un altro aspetto importante nel vangelo di oggi sul volto del discepolo... il discepolo vive degli avanzi. Lo diceva un giorno don Daniele Simonazzi commentando proprio questo brano, sottolineando come gli unici che non mangiano sono i discepoli, perché per loro ci sono i pezzi avanzati. I pezzi avanzati sono segno di abbondanza, perciò noi chiesa viviamo di abbondanza. Quando ci sono gli avanzi vuol dire che la fame non ha esaurito il dono che veniva dato. La chiesa vive di avanzi perché è una chiesa che sa aspettare, certa che ce n’è per tutti e che comunque il pane che avanza è pane spezzato, cioè è pane già condiviso. Nel mangiare gli avanzi viviamo di questa grande sovrabbondanza dell’amore del Signore. Come testimonieremo questa abbondanza? Se vivremo di avanzi. Bisogna che come chiesa abbiamo questa sapienza di aspettare di mangiare gli avanzi, che saranno ciò che abbiamo donato e che è passato attraverso la condivisione con il Cristo. La chiesa vive dell’abbondanza con cui il Signore ha cura dei suoi poveri. Ma c’è un’altra parola che mi colpisce e mi piace sottolineare perché credo dica tanto del volto che siamo chiamati a tracciare come discepoli. La traggo dalla seconda lettura, che ci dice che il discepolo intanto è un chiamato, e che per rispondere degnamente è chiamato a comportarsi con umiltà, dolcezza, magnanimità; solo così il nostro volto sarà immagine del volto dell’unico Dio: un solo corpo e un solo spirito... un solo Signore... un solo Dio e Padre di tutti. Forse mi spingo troppo oltre... ma è come se ogni tratto che s Paolo ci raccomanda di vivere fosse riflesso della Trinità: l’umiltà di un Padre che ai propri figli affida quanto ha di più prezioso fidandosi di loro, la dolcezza di un Figlio che tutti accoglie, abbraccia e perdona, la magnanimità dello Spirito che tutti raggiunge donando con larghezza la vita stessa di Dio. Qui, sul volto che come discepoli siamo chiamati ad imitare, mi pare abbia fatto grande chiarezza il papa, l’altra sera, nella cattedrale di Aosta parlando a braccio ai presenti. Mi pare un testo bellissimo, da conoscere, da condividere, e per questo ve lo lascio, credo ci possa aiutare a sognare un certo volto di discepolo, che decide di portare a Dio le cose più preziose che ha e non agli uomini che hanno una posizione, che contano, anche se questi possono farci avere riscontri più visibili e sicuri su questa terra. In questa breve omelia vorrei dire qualche parola sulla orazione con la quale si concludono questi Vespri, perché mi sembra che in questa orazione il brano della Lettera ai Romani, ora letto, sia interpretato e trasformato in preghiera. L’orazione si compone di due parti, un indirizzo, una intestazione per così dire, e poi la preghiera composta da due domande. Cominciamo con l'indirizzo che ha, a sua volta, due parti. Va qui un po' concretizzato il "tu" al quale parliamo per poter bussare con migliore forza al cuore di Dio. Nel testo italiano leggiamo semplicemente, "Padre misericordioso", il testo originale latino e un po' più ampio e dice "Dio onnipotente e misericordioso". Dio. Nella mia recente Enciclica ho tentato di mostrare la priorità di Dio sia nella vita personale che anche nella vita, nella storia e nella società del mondo. Certamente la relazione con Dio è una cosa profondamente personale, e la persona è un essere in relazione e se la relazione fondamentale, la relazione con Dio non è viva, non è vissuta, anche tutte le altre relazioni non possono trovare la loro forma giusta. Ma questo vale anche per la società, per l'umanità come tale, anche qui se Dio manca, se si prescinde da Dio, se Dio è assente manca la bussola per mostrare l'insieme di tutte le relazioni, per trovare la strada, l'orientamento dove andare. Dio. Dobbiamo di nuovo portare in questo nostro mondo la realtà di Dio, farlo conoscere e farlo presente. Ma Dio, come conoscerlo? Nelle visite "ad limina" parlo sempre delle religioni tradizionali con i Vescovi soprattutto africani, ma anche dell'Asia e dell'America latina, dove ci sono ancora queste religioni. Sono molti i dettagli abbastanza diversi, naturalmente, ma ci sono anche elementi comuni. Tutti sanno che c'è Dio, un solo Dio, che Dio è una parola al singolare, che gli dei non sono Dio, che c'è Dio, il Dio. Ma nello stesso tempo questo Dio sembra assente, molto lontano, non sembra entrare nella nostra vita quotidiana, si nasconde, non conosciamo il suo volto. E così la religione in gran parte si occupa di cose come i poteri più vicini, gli spiriti, gli antenati, etc., perché Dio stesso è troppo lontano e quindi ci si deve arrangiare con questi poteri vicini. E l'evangelizzazione consiste proprio nel fatto che il Dio lontano si avvicina. Che Dio non è più lontano ma è vicino. Che questo conosciuto-sconosciuto adesso realmente si fa conoscere, mostra il suo volto, si rivela, il velo sul volto scompare. E perciò perché Dio stesso adesso è vicino, lo conosciamo, ci mostra il suo volto, entra nel nostro mondo, non c'è più bisogno di arrangiarsi con questi altri poteri perché lui è il potere vero, è l'Onnipotente. Non so perché nel testo italiano hanno omesso la parola "onnipotente", ma è vero che ci sentiamo un po' quasi minacciati dall'onnipotenza, sembra limitare la nostra libertà, sembra un peso troppo forte, ma dobbiamo imparare che l'onnipotenza di Dio non è un potere arbitrario, perché Dio è il bene, è la verità e perciò Dio può tutto ma non può agire contro il bene, non può agire contro la verità, non può agire contro l'amore e contro la libertà, perché egli stesso è il bene, è l'amore e la vera libertà e perciò tutto ciò che fa non può mai essere in contrasto con verità, amore e libertà. E' vero il contrario: Egli Dio è il custode della nostra libertà, dell'amore, della verità. Questo occhio che ci vede non è un occhio cattivo che ci sorveglia, ma è la presenza di un'amore che non ci abbandona mai e ci dona la certezza che è bene essere è bene vivere. E' l'occhio dell'amore che ci dà l'aria di vivere. Dio onnipotente e misericordioso, una orazione romana collegata con il testo del Libro della Sapienza dice: "O Dio, che manifesti la tua onnipotenza soprattutto nella misericordia e nel perdono". Il vertice della potenza di Dio è la misericordia e il perdono. Nel nostro concetto mondiale di oggi del potere pensiamo che ha il potere chi ha grandi proprietà; in economia è chi ha qualcosa da dire, che dispone di capitali per influire sul mondo del mercato, pensiamo che ha il potere chi dispone del potere militare, che può minacciare. E la domanda di Stalin - "Quante divisioni ha il Papa?" - ancora caratterizza l'idea media del potere. Il potere lo ha chi può essere pericoloso, chi può minacciare, chi può distruggere, chi ha in mano tante cose del mondo. Ma la Rivelazione ci dice che non è così. Il vero potere è il potere di grazia e misericordia. Nella misericordia Dio dimostra il vero potere e così la seconda parte di questo indirizzo dice: "Che hai redento il mondo con la passione del tuo Figlio". Dio ha sofferto e nel Figlio soffre con noi e questo è l'ultimo apice del suo potere: che è capace di soffrire con noi. Così dimostra il vero potere divino. Voleva soffrire con noi e per noi e nelle nostre sofferenze non ci ha mai lasciato soli. Dio nel suo Figlio ha sofferto ed è vicino a noi nelle nostre sofferenze. Tuttavia rimane la questione difficile, che adesso non si può interpretare ampiamente: perché era necessario soffrire per salvare il mondo? Era necessario? Perché nel mondo esiste un oceano di male, di ingiustizia, di odio, di violenza, e le tante vittime dell'odio, dell'ingiustizia, hanno diritto che sia fatta giustizia. Dio non può ignorare questo grido dei sofferenti, che sono oppressi dall'ingiustizia. Perdonare non è ignorare ma trasformare. E Dio deve entrare in questo mondo e opporre all'oceano dell'ingiustizia un oceano più grande del bene e dell'amore. E' questo l'avvenimento della Croce che da quel momento è andato contro l'oceano del male. Esiste un fiume infinito e perciò sempre più grande di tutte le ingiustizie del mondo. Un fiume di bontà, di verità, di amore. Così Dio perdona trasformando il mondo ed entrando nel nostro mondo perché ci sia realmente una forza, un fiume di bene più grande di tutto il male che possa mai esistere. E così l'indirizzo a Dio diventa un indirizzo a noi, cioè questo Dio ci invita a metterci dalla sua parte, a uscire dall'oceano del male, dell'odio, della violenza, dell'egoismo e di identificarci, di entrare nel fiume del suo amore. E proprio questo è il contenuto della prima parte della preghiera che segue: "Fa' che la tua Chiesa si offra a te come sacrificio vivo e santo". Questa domanda diretta a Dio va a anche a noi stessi. E' un accenno a due testi della Lettera ai Romani. Nel cap. 12, Paolo dice che dobbiamo noi stessi divenire "un sacrificio vivente", cioè noi stessi con tutto il nostro essere dobbiamo essere adorazione, sacrifico, restituire il nostro mondo a Dio, trasformare così il mondo. Al cap. 15 dove Paolo descrive l'apostolato come sacerdozio, la funzione del sacerdozio è consacrare il mondo perché diventi "ostia vivente", perché il mondo diventi liturgia. Che la liturgia non sia una cosa accanto alla realtà del mondo ma che il mondo stesso diventi "ostia vivente", diventi liturgia. E' la grande visione che poi ha avuto anche Teilhard de Chardin che alla fine avremo una vera liturgia cosmica, e il cosmo diventerà ostia vivente. Preghiamo il Signore perché ci aiuti ad essere sacerdoti in questo senso, ad aiutare nella trasformazione del mondo in adorazione di Dio, cominciando da noi stessi. Che la nostra vita parli di Dio, che la nostra vita sia realmente liturgia, annuncio di Dio, porta attraverso la quale il Dio lontano diventa Dio vicino e realmente dono di noi stessi a Dio. E poi la seconda domanda: Fa' che il tuo popolo "sperimenti sempre la pienezza del tuo amore". Il testo latino aveva detto saziaci col tuo amore e così il testo accenna al Salmo che abbiamo cantato, dove si dice "apri la tua mano e sazia la fame di ogni vivente". E quanta fame esiste sulla Terra! Fame di pane in tante parti del mondo. Sua Eccellenza ha parlato anche delle sofferenze delle famiglie qui. Fame di giustizia, fame di amore. E con questa preghiera preghiamo Dio: apri la tua mano e sazia realmente la fame di ogni vivente. Sazia la fame nostra con la verità del tuo amore. Così sia. Amen. (Benedetto XVI°) |