Omelia (09-08-2009) |
don Marco Pratesi |
Alzati, mangia! La lettura traccia un itinerario: Elia passa dalla fuga, che diviene presto un vagare senza meta, al cammino verso il monte di Dio. Vediamo meglio. Elia fugge davanti a Gezabele: la regina lo ha minacciato di morte a motivo dell'uccisione dei quattrocento profeti di Baal, ed egli teme (cf. 19,1-3). Ma il motivo della fuga non è soltanto la paura della morte, che pure c'è. Più tardi, al culmine del suo sconforto, Elia dirà: "io non sono da più dei miei padri" (19,4). Che cosa vuol dire? Egli sente di aver fallito come i suoi padri. Pensava di poter riuscire, ma si sbagliava. Riuscire in cosa? Nel vincere l'idolatria, della quale Gezabele è in quel momento la grande sostenitrice. In effetti Elia aveva appena riportato due grandi successi, ossia predetto la fine della siccità e prevalso sui profeti di Baal. Il re era ben disposto verso di lui, mancava soltanto che la regina lo seguisse. La sovrumana corsa del profeta sino al palazzo del re (cf. 18,46) rappresenta probabilmente il culmine di questa esaltazione. In effetti ci si poteva ben aspettare che ciò avvenisse, e invece no: la regina rimane accanita avversaria. Alla paura si aggiunge il senso di fallimento: credevo di essere riuscito, invece ho mancato l'obiettivo. Si ha a questo punto l'impressione di un progressivo precipitare del profeta nel baratro. Fugge al sud, congeda il servo e rimane solo (cf. 19,3), entra nel deserto. Quando si entra in crisi si ha l'impulso a isolarsi; e alla paura della morte - che qui si manifesta come fallimento e pericolo - si risponde andando a cercare la morte, come se essa potesse essere medicina a se stessa e autodissolversi. Elia invoca la morte. Il suo sonno è già morte: per quanto lo riguarda egli non vuole più vedere la vita né il mondo. Ma Dio interviene. Una prima volta Elia mangia e beve, poi si rimette a dormire. Già questo sonno non è più solo morte, ma riposo. Ancora deve alzarsi e mangiare. Questa volta gli è data l'indicazione decisiva: c'è molto cammino da fare. La meta non è nemmeno detta - Elia ha bisogno di poco per comprendere - è l'Oreb, il monte di Dio, il luogo dell'alleanza. Deve rivivere personalmente il cammino dell'esodo, come è suggerito chiaramente dal numero quaranta (19,8). Dio si prende cura di lui. Non gli dice quasi niente, gli dà acqua e pane, cibo quanto mai essenziale. Il fatto che per due volte il profeta debba mangiare dice la necessità di un processo di rafforzamento: egli non riprende forza istantaneamente, solo la seconda volta si rimette in cammino. Oramai Dio ha fatto del suo vagare in cerca di morte un camminare verso la vita. E' la nostra esperienza. Si parte sempre da una lotta con la morte, nelle sue varie forme, lotta che alla fine risulta perdente e ci costringe alla fuga. I comportamenti nei quali si traduce la nostra risposta alla morte sono molteplici, ma la radice è una. Credevamo di riuscire, laddove avevamo visto tanti altri - forse anche proprio i nostri genitori - fallire. Alla fine realizziamo che essa avrà ragione anche di noi. Adesso siamo disorientati, i punti di riferimento sono saltati. Adesso la fuga diventa vagabondaggio e ricerca, più o meno esplicita, di morte. Ma no, essa non più risolvere nulla. Invocata, può soltanto rafforzarsi e rendere definitivo il suo dominio. Il Signore però trova il modo di arrivare sino a noi e darci del pane, dell'acqua, di riportarci all'essenziale, a ciò che solo è in grado di nutrire. Che cosa? Lui stesso, la sua presenza, la cura che mostra per noi se solo, come Elia, sappiamo "guardare e vedere" (19,6) vicino alla nostra testa reclinata la focaccia e l'orcio d'acqua che il Signore, durante il nostro sonno di morte, silenziosamente ha deposto. I commenti di don Marco sono pubblicati dal Centro Editoriale Dehoniano - EDB nel libro Stabile come il cielo. |