Omelia (02-08-2009)
don Maurizio Prandi
Il discepolo: un uomo mai sazio, un uomo libero

Le letture di questa diciottesima domenica del T.O., ascoltate nell’ottica del cammino che stiamo percorrendo, ci dicono, rispetto al volto che stiamo cercando di tracciare, che il discepolo è un uomo mai sazio, un uomo libero.

Un uomo mai sazio. Credo che il brano di vangelo che abbiamo ascoltato voglia, attraverso le parole di Gesù, metterci in guardia proprio dalla ricerca della sazietà. Il sazio ha finito di cercare, oramai si sente a posto, ma l’invito di Gesù è ad andare oltre, oltre quel pane che ha placato la tua fame, oltre le cose che riempiono la tua vita, oltre il meccanismo che ti spinge ad accontentarti di quello che hai raggiunto.
La folla giovannea pur vedendo i prodigi non comprende e pensa di utilizzare Dio per i suoi scopi. Possiamo dire che è l’equivoco di sempre: l’uomo è alla ricerca di Dio perché in fondo pensa che sia una facile assicurazione sulla vita. Però la nostra fede è legata a dei segni, non è legata alla sazietà. Un popolo sazio rischia di diventare anche un popolo idolatra, tanto è vero che si può avere con Gesù un rapporto da idolatri. Ricordate il vangelo di domenica scorsa che diceva: "Gesù, saputo che stavano per venire a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sulla montagna tutto solo". Qui Gesù viene fatto coincidere con la "pancia piena". C’è un modo di accostarsi a Gesù che è un modo idolatra. Gesù ci invita a vedere in lui "il segno". Gesù adotta il segno del pane per dire che lui è la presenza del Padre. E anche quando la folla dice a Gesù: dacci sempre di questo pane che dà la vita per sempre (così come la donna samaritana aveva chiesto a Gesù di darle sempre di quell’acqua che disseta per la vita eterna) Gesù non ci sta e rimanda a Dio, alla fonte, alla sorgente, all’origine della vita. Davanti a un’offerta vantaggiosa ci si precipita a chiedere quanto sembra risolvere d’un colpo tutti i problemi. Ma Gesù non può accettare. Se prima aveva sollecitato a procurarsi il cibo eterno, ora rimarca che la sua promessa di un pane che sazia ogni fame è diretta a chi si muove per andare verso di lui. Gesù ci dice chiaramente che Egli è per loro e per noi la nostra sazietà (don Daniele Simonazzi). L’andare a lui è l’essere sazi e il credere in lui è il dissetarsi. L’andare a lui è la nostra sazietà. La fede allora è il nostro nutrimento, è il nutrirci di lui. Ma non ci si può nutrire se non da affamati. Non ci si può rivolgere a lui se non nella condizione di chi ha fame. Così come non si può credere in lui se non da assetati. C’è questo incontro: "chi viene a me non avrà più fame". La nostra fede in lui mette se stesso nella condizione di sfamarci. La fede è questa reciprocità con Dio in un abbandono reciproco, non meno per Dio che per noi. La fede ha un costo, che è quello di andare a lui, ma non più di quanto lui non sia venuto a noi. A lui non costa meno di quanto non costi a noi. Noi ci dissetiamo dall’acqua viva che sgorga dal costato di Cristo morto sulla croce. La fede è la condizione che ci fa vivere cosa significa per Dio dissetarci.

Un uomo libero. Il libro dell’Esodo, che sappiamo essere percorso da due temi principali (la liberazione dall’Egitto e l’alleanza al Sinai) racconta proprio di questo cammino di libertà legato al deserto. Proprio per questo la parola libertà non è una parola scontata. Si fa riferimento qui alla vicenda della manna nell’esodo, segno di ogni nutrimento e sostegno che ci permette di camminare. In questo testo si alza la mormorazione contro Mosè e contro il Signore. Ecco il deserto più spaventoso: ci si sente dimenticati da Dio (don Daniele Simonazzi) e in balia di un destino cieco e assurdo. La vera tentazione del deserto allora è quella di far apparire tutto nell’ottica dell’assurdità delle cose. Non c’è e non si intravede la possibilità di un senso al cammino che si sta percorrendo. Il testo termina con un’affermazione di fede: "Ecco il pane che il Signore vi ha dato in cibo". Il pane c’è, sappiamo che il Signore è presente e ci accompagna, ma ci sono momenti in cui abbiamo la sensazione che la nostra fame sia tale da sembrare insaziabile. A volte ci sentiamo morire di fame, ci sembra cioè che il Signore non ci dia ciò che ci fa vivere o che, secondo noi, è necessario per vivere. Nel deserto ti è data la possibilità di conoscere un Dio che ti accompagna, che non ti lascia solo. Il deserto allora è una sorta di scuola di libertà. Vivere il deserto è vivere l’essenzialità, la semplicità, la giusta misura. Nel deserto, l’uomo in ascolto di Dio si scopre libero dall’accaparrare, dall’ammucchiare, dal fare una scorta (ricordate domenica scorsa? A Dio si offrono le primizie, non ciò che è sicuro perché lo hai gia messo in abbondanza in cascina...): oggi ci è stato raccontato che nel deserto ogni israelita non poteva raccogliere se non la razione di un giorno di manna. Liberi dal fare scorte allora, perché fiduciosi in Dio, liberi dall’ammucchiare perché desiderosi ogni giorno di volgere il proprio sguardo al cielo, per attendere il dono che viene dall’alto, per risvegliare ogni giorno la consapevolezza della propria non-autosufficienza e quindi della propria dipendenza da Dio: dacci oggi il pane quotidiano.