Omelia (23-08-2009) |
don Marco Pratesi |
Chi volete servire? Israele è oramai installato in Palestina. Giosuè, prossimo al termine della vita, convoca il popolo in Sichem, luogo di memorie patriarcali (cf. Gen 12,6-7; 33,18-20; 35,2-4), per una grande assemblea. Egli richiama l'operato del Signore, prima con i patriarchi (24,2-4), poi nell'esodo (5-7), fino alle soglie della terra promessa e all'ingresso (8-13). A questo punto sollecita una esplicita presa di posizione da parte del popolo. Il dialogo si fa serrato, anche drammatico (la liturgia taglia, ma vale la pena di leggere tutti i vv. 14-24): chi volete servire? E, al di là delle buone intenzioni: sarete davvero in grado di servire il Signore, come dite? "Noi serviremo il Signore" (v. 24): di fronte a questa scelta, Giosuè redige un documento di alleanza ed erige una stele commemorativa. L'assemblea è conclusa (25-28). Di lì a poco Giosuè morirà (24,29). Si apre l'epoca dei Giudici. L'insistenza del brano è chiara, ed è la domanda rivolta oggi a ciascuno: chi vuoi servire? A servizio di chi vuoi mettere la vita, le risorse, il tempo etc.? La questione è decisiva. Ogni uomo deve dare risposta, se non esplicita, di certo implicita: perché ogni scelta dipende da questa risposta, dice che cosa è importante per me e che cosa non lo è, e dunque chi e che cosa è realmente il mio Dio. Naturalmente emerge subito la reazione: "io non voglio servire nessuno, voglio essere libero". Una simile risposta significa all'incirca: "voglio servire me stesso e nessun altro. Non voglio alcun signore, alcun padrone". Però poi concretamente questo "servire l'ego" deve tradursi in scelte, concretizzarsi nell'andare verso qualcosa, piuttosto che qualcos'altro, come strumento della mia autorealizzazione. Perché l'io dà solo non può reggersi e deve necessariamente appoggiarsi su qualcosa d'altro da sé. A questo punto sono rientrato in quel servizio da cui mi illudevo di affrancarmi. Perché mio Dio è appunto ciò dal quale dipende (o mi sembra dipendere) la mia vita. Perciò avere dei signori è inevitabile, e chi si ritiene libero è soltanto un illuso. Il punto non è liberarsi da ogni servizio, ma servire quei signori che mi fanno vivere e liberarmi da quelli che mi opprimono. Libertà non è vivere la propria vita fine a se stessa, il che la rende sterile e assurda; ma piuttosto come servizio a ciò che merita di essere servito e la rende buona e sensata. Qui allora è questione del primo comandamento, che è poi quello essenziale: l'unico degno di essere servito è Dio. Tutto il resto va vissuto all'interno di questo servizio e in armonia con questa scelta di base. Israele a Sichem ha manifestato la sua volontà di servire il Signore, ma già dopo la morte di Giosuè si ritrova a zoppicare: l'epoca dei giudici è caratterizzata dal continuo oscillare tra Dio e gli idoli (cf. Gdc 2,11-19). Non dobbiamo illuderci. Un conto sono le intenzioni, un altro la realtà. Mettersi integralmente al servizio di Dio, "con integrità e fedeltà" (Gs 24,14), "con tutto il cuore e tutta l'anima" (Gs 22,5) non è punto di partenza ma di arrivo, e richiede un cammino ben esigente. Vale la pena di intraprenderlo: solo questa è la via della vita. I commenti di don Marco sono pubblicati dal Centro Editoriale Dehoniano - EDB nel libro Stabile come il cielo. |