Omelia (30-08-2009) |
don Marco Pratesi |
Custodia fedele Il primo dei tre discorsi di Mosè in cui è strutturato il Deuteronomio (1,6-4,40) si articola in due parti: la prima (cc. 1-3) è una rievocazione storica di alcuni fatti dell'Esodo, dalla teofania del Sinai all'arrivo sul monte Pisga, alle porte della terra promessa, dove Mosè morirà; la seconda (c. 4) ne trae alcune conclusioni ed esorta alla fedeltà. L'invito fondamentale del brano proposto è: ascolta e metti in pratica la legge di Dio, quale essa ti è consegnata nella tradizione di Israele. Nei confronti della legge devi mantenere un atteggiamento di cura scrupolosa, sia nel senso di osservarla, sia nel senso di lasciarla inalterata così come essa è stata tramandata, per tramandarla a tua volta alle generazioni successive (cf. 4,9-10). La cura della tradizione è così fondamentale in quanto essa è espressione della vicinanza unica che Dio ha voluto avere nei confronti di Israele. In essa risuona ancora la parola di Dio rivolta al popolo sull'Oreb (4,10.12.33.36). La custodia fedele è dunque la condizione per un possesso stabile della terra, ed è anche la condizione indispensabile perché il popolo possa salvarsi in periodi difficili, come quello dell'esilio (4,30-31). Il brano ha tono sapienziale. C'è un insegnamento da apprendere e trasmettere (4,1.5.10.14), Mosè appare come maestro di sapienza, i capi del popolo sono guide sagge (1,13.15; 34,9) alle quali dare ascolto. E' probabilmente il messaggio fondamentale del Deuteronomio, che troverà la sua più importante espressione nel celebre "Ascolta, Israele" (6,4-9). Il rapporto con Dio è totalizzante e comporta l'essere permanentemente protesi verso il Signore nell'ascolto obbediente e nella attenta custodia della sua Parola, concretizzata nelle sue "leggi e norme" (4,5). Il Giudaismo accentuerà questo aspetto, ritenendo assolutamente inseparabili i valori ispiratori della Torah dalle sue prescrizioni particolari. L'accentuazione posta sui comportamenti esteriori e la loro regolamentazione comporta innegabilmente il rischio del formalismo, denunziato già dai profeti. Il Cristianesimo prenderà la strada opposta, cogliere il centro, l'essenziale della volontà di Dio, così come è stata colta nell'esperienza di Gesù dalla prima chiesa che, non dimentichiamolo, era interamente formata da ebrei: l'amore per Dio e il prossimo (cf. Mt 22,38-39; Mc 12,30-31; Lc 10,27; Rm 13,9-10). Attorno a questo nucleo è nata una nuova Scrittura e una nuova tradizione, che si vuole non abolizione ma completezza dell'antica (cf. Mt 5,17), che richiede da parte nostra custodia attenta e costituisce la nostra identità davanti agli altri. Divenire cristiano significa entrare in questo grande movimento di tradizione che supera le generazioni e che realizza la stessa e unica fede nelle varie generazioni, richiedendo a un tempo fedeltà e creatività: fedeltà, perché la fede è una; creatività, perché essa domanda di essere incarnata nel mutare dei tempi e delle situazioni. Ortodossia e ortoprassi non sono mai da separare, tanto meno da contrapporre: si richiamano e si richiedono reciprocamente. I commenti di don Marco sono pubblicati dal Centro Editoriale Dehoniano - EDB nel libro Stabile come il cielo. |