Omelia (01-06-2003)
mons. Antonio Riboldi
Ascensione, un invito alla speranza

Diceva Gibran, un testimone di fede, oltre che scrittore, dei nostri tempi, a proposito della speranza: "Le virtù teologali fede, speranza e carità, sono come tre sorelle che camminano tenendosi per mano. Fede e carità, le due che sembrano più grandi stanno a lato, la speranza, che appare come la più piccola e bisognosa di essere sorretta, sta al centro. A guardarle bene queste tre non si comprende se, quel tenersi per mano, non sia la più piccola a voler sostenere le più grandi non viceversa".
Sappiamo tutti della forza della fede, della carità, doni capaci di dare grandi testimonianza, fino al martirio. Ma sperimentiamo come è difficile, molto difficile possedere la speranza. Ci sono momenti in cui la vita sembra proprio ti tagli le gambe, quando magari sei lanciato in disegni nobili che ad un tratto, sembrano con il loro fallimento travolgere tutto, come se di fronte ad un pellegrino che si era prefisso una meta, all'improvviso crollasse il ponte su cui passa, costringendolo o a tornare indietro o cercare di superare l'improvviso ostacolo.
E ci sono fatti che davvero o ti appelli alla speranza cristiana e guardi oltre, diversamente si ha come l'impressione che la vita non abbia più senso; non ha più senso ogni proposito di bene o di amore... come fossimo morti.
Possiamo chiamare "piccole speranze", ma che si fermano a questa terra, quelle di una guarigione, di una buona salute o di una buona notizia, ossia quelle speranze giuste di cose buone che aiutano a dare serenità al cuore.
Non si possono chiamare speranze le voglie di "cose", che sono quella polvere di cui siamo fatti; "Ricordati uomo che sei polvere e polvere ritornerai"; come la voglia di ricchezza, di onore o di altri idoli senza futuro e senza cuore: "Cose" che assolutamente non sono la piccola sorella che sta in mezzo alla fede ed alla carità.
Parlo di speranza perché c'è nella vita di Gesù con gli apostoli e quindi con tutti coloro che credono in Lui, il momento in cui poteva crollare quella speranza che doveva essere la forza di iniziare la missione nel mondo, per cui erano stati scelti e chiamati. Il momento della separazione, quella fisica cui tanto teniamo come conferma della fede.
L'avevano vissuto gli apostoli questo smarrimento e quindi il senso della fine di una speranza ancora imprecisa, dopo la morte in croce di Gesù. Quel Gesù deposto nel sepolcro sembrava avere messo fine ad ogni illusione. E sarà Gesù poi, con la resurrezione, a cancellare ogni dubbio e quindi "andare oltre".
Raccontano gli Atti: "Gesù si mostrò ad essi vivo, dopo la sua passione; con molte prove, apparendo loro per quaranta giorni e parlando loro del Regno di Dio. E mentre si trovava a tavola con essi ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere che si adempisse la promessa del Padre: "Quella, disse, che avete udito da me. Giovanni ha battezzato in acqua, voi invece sarete battezzati in Spirito Santo, fra non molti giorni"...
Detto questo fu elevato in alto sotto i loro occhi e una nube lo sottrasse ai loro sguardi. E poiché essi stavano fissando il cielo mentre egli se ne andava ecco due uomini vestiti in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: "Uomini di Galilea, perché state a guardare il Cielo? Questo Gesù che è stato tra di voi assunto al cielo, tornerà un giorno allo stesso modo in cui l'avete visto andare in cielo" (At. 1,1-11).
Sorprende la serenità con cui i discepoli ammirano Gesù che sparisce dalla loro vista e provano solo stupore...sarebbero stati a guardare per tutta la vita come era successo sul Tabor. Non se ne va più Gesù su una croce che poteva spegnere speranza, ma va glorioso in cielo, come volesse tracciare una strada, meravigliosa ed unica strada che allora gli apostoli seguivano con la meraviglia, ma che oramai erano certi, era la strada che avrebbero percorso per raggiungerLo...solo che dovevano attendere lo Spirito Santo e compiere quella missione per cui erano chiamati. Ma oramai la via non faceva più paura: non erano più possibili "cadute di speranza", perché non solo un giorno l'avrebbero rivisto nella gloria per loro preparata, ma anche perché erano oramai certi che Lui era con loro, giorno per giorno, come a voler percorrere insieme quella scia di luce che è la santità, ossia quel camminare facendosi guidare dalla fede e dalla carità, saldamente tenute per mano dalla speranza. Questa è la nostra speranza. Può accadere tutto nella nostra vita: possiamo a volte passare per la notte del venerdì santo: ma sappiamo che c'è il cielo che ci attende. Dio le permette queste notti, per mettere alla prova la nostra fede ma non ci abbandona...in altre parole la speranza ci trattiene con forza perché sa che oltre la notte c'è la scia della ascensione che ci attende. E la speranza affonda le sue radici nella presenza di Gesù accanto a noi. "Io sarò con voi, sempre, fino alla fine del mondo". La speranza allora ha la sua forza nella certezza che Gesù è vicino, è la nostra forza, il nostro futuro. Lui ci segue passo passo.
Scriveva Zundel, uomo di speranza: "L'universo non è chiuso. Tutte le sue linee si prolungano all'infinito e orientano lo sguardo verso il polo invisibile dove ogni cosa è misteriosamente magnetizzata. Il mondo è aperto a una immensa aspirazione verso la pienezza, alla quale è sospeso tutto il suo divenire". E Paolo VI commenta: "La sentiranno questa consolazione quelli a cui la terra non ha dato la felicità: e siamo tanti. Siamo tutti. Quelli specialmente i cui desideri furono ingiustamente delusi, quelli che sperarono indarno il loro pane, la loro pace, il loro onore, il loro amore": le beatitudini del Vangelo: sono per i poveri in spirito: i piangenti, gli umiliati, gli infelici. La speranza cristiana è il grande conforto per il dolore del mondo. Guai a quelli che la spengono nel cuore del popolo che lavora, che soffre. La speranza cristiana è la grande certezza per coloro che combattono per un giusto ideale, che magari non trionferà, ma non combattono invano. La speranza cristiana suscita i poeti, gli eroi, i martiri, i santi. Essa è la garanzia che compensa coloro che vivono senza godere e muoiono senza avere abbastanza vissuto: è il domani beato per chi non ha avuto il suo oggi completo. L'inno della speranza dovrebbe echeggiare verso il Cristo che scompare con l'ascensione al Cielo dalla scena terrestre, e dovrebbe formare, come infatti lo forma nella liturgia, il canto dei rimasti in terra a seguire gli esempi di lui e aspettarne il ritorno (omelia di Paolo VI a Milano, ascensione 1958).
Può sembrare utopistico per chi non ha fede, vivere come in attesa del ritorno, ma con i piedi a terra a coniugare fede e carità. E' bello anche solo pensare che tutto quanto si fa', e con sacrificio, non ha la caduta delle piccole cose che non hanno futuro ma trapassa il tempo ed è come una lettera indelebile scritta nell'eternità e per l'eternità. E' bello sapere che così non si vive per nulla, come se tutto finisse, ma che ogni cosa è come ascendere al cielo con Gesù, rapiti in quella nube che nasconde la terra.
La terra, con tutte le sue gioie e speranze, con le sofferenze e le angosce, soprattutto quando sono lo stupendo campo della carità, diventa il luogo in cui si scrive il futuro con Dio.
Madre Teresa di Calcutta che sapeva coniugare bene fede, speranza e carità, affermava spesso che attendeva il ritorno di Gesù e non aveva assolutamente paura finalmente di affacciarsi alla porta del cielo...perché là avrebbe trovato tanti poveri, che lei, con la carità, aveva sollevato al cielo.
Non resta anche a noi che farsi affascinare da Gesù che ascende al cielo e non togliere mai lo sguardo all'attesa dell'incontro con Lui. Questo si chiama dare bellezza alla vita..diversamente è un vuoto scrivere sulla sabbia..con disperazione, o delusione o dolore.


Antonio Riboldi - Vescovo -

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