Omelia (30-08-2009) |
don Daniele Muraro |
Religio vera: la ragione Il libro del Deuteronomio è una raccolta di tre grandi catechesi che Mosè fa al suo popolo in procinto di entrare nella Terra Promessa. Nella prima lettura abbiamo ascoltato alcune esortazioni estratte dal primo discorso. Dopo avere rievocato il viaggio nel deserto e tutte le prove superate nei quarant'anni che era durato, Mosè si rivolge all'assemblea e ammonisce tutti a prendere sul serio leggi e norme che egli trasmette a nome di Dio. "Quella sarà la vostra saggezza e la vostra intelligenza agli occhi dei popoli". Poco prima aveva interrogato: "Dal giorno in cui Dio creò l’uomo sulla terra e da un’estremità all’altra dei cieli, vi fu mai cosa grande come questa e si udì mai cosa simile a questa? Che cioè un popolo abbia udito la voce di Dio parlare dal fuoco...? O ha mai tentato un Dio di andare a scegliersi una nazione in mezzo a un’altra con prove, segni, prodigi e battaglie, con mano potente e braccio teso e grandi terrori, come fece per voi il Signore, vostro Dio, in Egitto, sotto i tuoi occhi?". E concludeva: "Tu sei stato fatto spettatore di queste cose, perché tu sappia che il Signore è Dio e che non ve n’è altri fuori di lui." Dunque Mosè ha viva coscienza che esiste un solo Dio: per lui le religioni non sono tutte eguali, ma solo quella rivelata da Dio è la religione vera e ragionevole. Pur inserita nella storia essa non può andare soggetta ai mutamenti della volubilità umana. Infatti Mosè prescrive: "Non aggiungerete nulla a ciò che io vi comando e non ne toglierete nulla." La Parola di Dio si può cercare di interpretarla, se ne possono proporre sempre nuove applicazioni, ma non la si può stravolgere. Soprattutto non la si può eliminare, verrebbe meno il fondamento di ogni atto buono e religioso. Questo vuol dire che la fede ebraica e poi quella cristiana si basano sulla conoscenza e non sulla poesia o sulla politica; per quanto strano sembri queste due erano le grandi fonti delle religioni antiche. I Romani e in particolare i Greci si dilettavano a sentire raccontare i loro miti: su di essi fondavano le loro convinzioni. I Greci e in particolare i Romani ritenevano che solo onorando con riti adeguati i loro dèi lo Stato avrebbe ottenuto vittorie sui nemici e goduto di prosperità materiale. Indagare sulla coerenza dei vari miti, spesso in contrasto fra loro, oppure interrogarsi sul significato dei riti tradizionali, sarebbe stato avvertito in quelle società come una pretesa di empietà. Infatti Socrate, il filosofo, fu condannato a morte anche perché attraverso il suo interrogare ostinato aveva rivelato l'inconsistenza di tanta parte della religiosità praticata ad Atene. Nel discorso preparato per la visita all'Università della Sapienza a Roma nel 2007 papa Benedetto cita proprio le parole Socrate nella sua disputa con un tale Eutifrone, un indovino custode di un tempio. A lui Socrate rivolge la domanda: "Tu credi che fra gli dèi esistano realmente una guerra vicendevole e terribili inimicizie e combattimenti? Dobbiamo, Eutifrone, effettivamente dire che tutto ciò è vero?" Si tratta di una domanda apparentemente poco devota, dice papa Benedetto, che però dimostra la ricerca di un Dio veramente degno di questo nome e quindi di una religiosità più profonda e più pura. I cristiani dei primi secoli accolsero l'annuncio degli Apostoli non come una credenza fra le altre o come la maniera per assicurarsi prima e meglio i favori divini, ma come la vera religione. Tramite la fede cristiana si dissolsero per loro le nebbie del mito e si affermò la scoperta di un Dio che non si sottrae alla ricerca della mente umana. Per questo motivo l'attività della ragione che si interroga su Dio e sulla dignità dell'essere umano non è per i cristiani una prova di mancata religiosità. Anzi la forza che ha trasformato il cristianesimo in una religione mondiale consiste proprio nella sintesi da essa operata tra fede, vita e ragione. Occorre essere intelligenti anche quando si crede, riconoscere la gerarchia della verità della propria fede, non disperdersi nei dettagli trascurando l'essenziale. I Greci abbiamo detto si dilettavano ad intrecciare in maniera poetica le vicende dei loro dèi. Gli Ebrei beneficiari di una professione di fede storica non caddero nel tranello del mito, ma ad un certo punto cominciarono a soffrire del difetto opposto, ossia tradizionalismo e vuota ripetitività. Gesù nel Vangelo insegna che occorre preoccuparsi più della purezza delle proprie intenzioni che non di compiere meticolosamente certi pratiche o astenersi scrupolosamente da certe altre. Dio guarda il cuore. Sembra un po' ridicolo detto così, ma Gesù doveva confrontarsi con una mentalità secondo cui la cura dell'igiene, lavature e abluzioni, esauriva ogni esigenza dell'amor di Dio. Di tutt'altro tenore sono le considerazioni di san Giacomo al termine della seconda lettura; "Religione pura e senza macchia davanti a Dio Padre è questa: visitare gli orfani e le vedove nelle sofferenze e non lasciarsi contaminare da questo mondo." Si vede che l'apostolo ha assorbito l'insegnamento del Signore. Chi crede e frequenta il rito cristiano non ha bisogno di tante istruzioni su come mettere pratica gli insegnamenti ricevuti: il più delle volte è solo questione di coerenza logica. Anche sotto questo aspetto si dimostra che ragionare non è estraneo alla fede, anzi rende la nostra religione più autentica e più concreta. |