Omelia (13-09-2009) |
padre Antonio Rungi |
Signore Gesù, tu sei il nostro Salvatore Celebriamo oggi la XXIV domenica del tempo ordinario e al centro della nostra riflessione c’è il testo del Vangelo di Marco con la celebre confessione della divinità di Cristo da parte di Pietro, capo del collegio degli apostoli, e parimenti l’assegnazione del compito a Pietro da parte di Gesù di guidare la chiesa. Stiamo a Cesarea di Filippo e qui avviene questo dialogo tra Gesù e i suoi discepoli. Il Maestro, già a conoscenza di tutto, chiede agli apostoli cosa pensi la gente di lui. Nel testo del Vangelo di Marco sono riportate alcune definizioni del Cristo o identificazioni con personaggi biblici ben precisi dell’AT e NT. Ma Gesù vuol sapere esattamente qual è il pensiero degli apostoli nei suoi riguardi, se effettivamente hanno compreso chi fosse. La riposta di Pietro è eloquente: tu sei il consacrato l’Unto del Signore. Il Cristo, il Messia. È la confessione della fede di Pietro e del gruppo dei discepoli di Cristo Salvatore. Dal testo del vangelo è comprensibile quale conseguenza ne deriva il fatto che uno accetti Cristo come redentore. La conseguenza è la sequela, è l’impegno per un mondo nuovo capace di uscire dall’individualismo e dall’egoismo e di assumersi il peso delle responsabilità, che sono espresse dalla croce. La sequela di Cristo non ammette compromessi, essa chiede una disponibilità totale alla volontà di Dio fino alla croce e alla morte. Siamo capaci di questa sequela? Sappiamo davvero metterci in cammino con Cristo sulla via del Calvario? O piuttosto pensiamo ad un Dio che è solo gioia, benessere, assenza di dolore, un essere superiore capace di soddisfare tutte le nostre esigenze materiali. La croce a cui fa accenno Cristo e che deve essere accettata e portata non può essere strumento di scandalo o di rifiuto, ma di gioia e di liberazione. La via della Croce l’ha seguita prima lui e dopo di lui tutti coloro che seriamente vogliono fare un discorso di fede cristiana, di abbandono in Dio. Non si tratta solo nella fede di riconoscere Cristo come l’inviato del Padre, ma di testimoniarlo con una degna condotta di vita cristiana che vuol dire capacità di amare fino al sacrificio supremo. La figura del Cristo umiliato e sofferente, il Servo dolente delineato nei suoi scritti dal profeta Isaia la comprendiamo bene alla luce del testo della prima lettura di oggi, in cui si parla appunto delle sofferenze del futuro messia di Israele. Esattamente quello che si è verificato nella vita di Cristo. E ciò è un’ulteriore conferma che Cristo vero uomo e vero Dio è davvero il salvatore annunciato dai profeti anche sotto le vesti dell’uomo dei dolori. Leggere questo testo alla luce dell’evento della Croce assume un significato molto preciso riferito a Cristo Crocifisso. La sofferenza di Cristo non è stata vana, anche se è stata la cattiveria dell’umanità a schiacciare solo nel corpo la persona di Cristo, ad umiliarlo, a condannarlo a morte e a vederlo morire su un patibolo tra i più abietti del tempo. La dignità del Crocifisso, del Servo sofferente di Jahvé è un forte monito a ciascuno di noi per accettare di buon grado il dolore e la prova, ben sapendo che ogni sofferenza non è vana né per la propria vita, né per quella degli altri. La sofferenza più della gioia ha valore di eternità e di vita oltre la stessa sconfitta e debolezza. Apprendere dal Crocifisso il linguaggio dell’amore e della solidarietà è quanto ci viene detto in modo molto chiaro dall’Apostolo Giacomo nel brano della sua lettera che ascoltiamo come seconda lettura della parola di Dio oggi. Il crocifisso si identifica con i poveri, gli emarginati, i sofferenti e gli umiliati della terra. Chi vuole rimuovere Cristo Crocifisso non solo dai locali pubblici, come sempre più assurdamente viene chiesto in varie parti della nostra Patria, vuol dire che vuole rimuovere dalla sua coscienza la realtà dell’amore, del dolore, dell’oblazione, del sacrificio e della solidarietà. E’ come prendere i poveri e buttarli via da un progetto do società ove solo i ricchi contano e solo chi vive bene ha diritto di cittadinanza. San Giacomo apostolo uno scatto di orgoglio per quanti si professano cristiani e dicono di avere fede. Uno scatto di orgoglio che si traduce in opere ed azioni di vera carità e di concretezza nell’operare per gli altri. È evidente che la fede in Cristo chiede un impegno concreto e fattivo per gli altri. Non basta solo proclamarle la fede, va vissuta. E la fede senza la carità-speranza è una fede improduttiva per la salvezza eterna, ma anche nel tempo. Solo chi partendo dalla fede agisce per amore degli altri avrà una corrispondenza tra il dire e il fare. Spesso parliamo molto, ma agiamo poco, parliamo bene ed agiamo molto male, contrariamente a quello che diciamo di fare agli altri. Si mettono i pesi sulle spalle degli altri e noi non siamo in grado di portarne neppure uno tra i più leggeri di questi pesi. Dobbiamo concretamente aiutare chi si trova nel bisogno. E quanti hanno le risorse necessarie se non lo fanno renderanno conto a Dio del loro operare a favore esclusivo di se stessi senza considerare i bisogno fondamentali degli altri come il cibo. Sia questa la nostra preghiera di oggi che eleviamo al Signore con proposito di vero cambiamento interiore ed etico: O Padre, conforto dei poveri e dei sofferenti, non abbandonarci nella nostra miseria: il tuo Spirito Santo ci aiuti a credere con il cuore, e a confessare con le opere che Gesù è il Cristo, per vivere secondo la sua parola e il suo esempio, certi di salvare la nostra vita solo quando avremo il coraggio di perderla. |