Omelia (13-09-2009) |
don Daniele Muraro |
Religio vera: la vita Se apriamo il Vangelo di san Marco al primo versetto troviamo scritto: "Inizio del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio". I due appellativi con cui viene qualificato Gesù guidano la scansione di tutto il racconto e dividono in due il libro. La prima parte del Vangelo di Marco contiene una serie di interrogativi sulla persona di Gesù e termina con la risposta di Pietro che abbiamo ascoltato: "Tu sei il Cristo". Di lì iniziano gli annunci della passione che culminano nell'affermazione del centurione pagano sotto la croce: "Davvero quest’uomo era Figlio di Dio". Cristo in greco e Messia in ebraico vogliono dire la stessa cosa: Gesù è colui che Dio ha inviato, consacrato; a Lui ci si deve rivolgere per ottenere la salvezza. Subito dopo la professione di fede di san Pietro, Gesù sposta l'attenzione non più su chi è Lui, ma su come Egli procurerà agli uomini questa salvezza, cioè attraverso la sofferenza. "Il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto, ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere." Il contenuto di questa istruzione di Gesù non è facile da accettare né per Pietro e gli altri Apostoli allora, né per noi oggi. Pietro, che poco prima si era incaricato di rispodere alla domanda di Gesù a nome di tutti gli altri, sùbito dopo prende l'iniziativa di contrastare le previsioni del Signore. Dobbiamo immaginare il piccolo gruppo in viaggio con Gesù in testa. Mentre camminano il Maestro insegna le cose che abbiamo detto, ma Pietro un balzo supera il Signore, Gli si mette davanti, Gli impedisce di proseguire e inizia a discutere animatamente con Lui. Che Gesù stesse davanti e guardasse dritto ce lo fa capire san Marco quando riferisce che ad un certo punto Egli si volta verso i restanti discepoli e rimproverando Pietro gli ordina di tornare al suo posto: "Va’ dietro a me, perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini". Gesù aggiunge un appellativo nei confronti di Pietro da non intendere come un'improperio, ma come avvertimento: "Va’ dietro a me, Satana!". Pietro in quel momento svolgeva la parte del tentatore, di colui che mette alla prova, con il proposito di sviare dalla volontà di Dio. La fede di san Pietro era giusta, ma imperfetta. Anche Pietro aveva bisogno di convertirsi, ossia proprio di cambiare posizione e di ritornare nel ruolo di discepolo, abbandonando il posto di comando che aveva usurpato al suo Signore. Sapere tutto della fede cristiana non vuol dire essere credenti. "Se la fede non è seguita dalle opere, in se stessa è morta" conclude san Giacomo nella seconda lettura. Immediatamente dopo la lettera continua: "Tu credi che c’è un Dio solo? Fai bene; anche i demòni lo credono e tremano!", ma non si salvano, perché manca loro l'amore. La fede cristiana è fatta per essere vissuta e questo perché per primo il suo fondatore non l'ha soltanto predicata, ma l'ha attuata e al prezzo della vita. Nei rapporti con le altre religioni il dialogo può essere utile, ma non è decisivo. Non è a livello mentale che si decide della bontà di una religione, ma su quello della vita concreta. Il tollerantissimo impero romano accoglieva nei suoi templi le statue degli dèi dei vari popoli conquistati, ma di fronte ai cristiani cambiò atteggiamento e li perseguitò perché la loro vita era in dissonanza con quella di tutti gli altri e veniva avvertita come un muto rimprovero. Quando preannuncia la propria passione a Pietro e agli altri Apostoli Gesù non presenta la sua sorte come come un destino inevitabile e catastrofico, ma come la via che il Padre tracciava per la salvezza degli uomini. Ed aggiunge che pure i suoi discepoli, quelli degni di questo nome, percorreranno la sua stessa via, e potranno farlo se la accetteranno liberamente per amore suo e del Regno di Dio. "Chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà!" Tutti siamo tentati di correggere il Vangelo, di abbassare l'asticella delle sue esigenze al livello presunto delle nostre capacità e così, anche senza volerlo, rischiamo di adattare le parole di Gesù alla mediocrità dei nostri calcoli. "La grande sventura - diceva san Giovanni Maria Vianney (il curato d'Ars) - è che l’anima si intorpidisce" ed intendeva con questo un pericoloso assuefarsi allo stato di peccato o di indifferenza in cui in tanti già vivono. A se stesso e ai suoi fedeli spiegava: "Non ci sono due maniere buone di servire Dio. Ce n’è una sola: servirlo come lui vuole essere servito". Sono passati cinquant'anni da quando il Concilio Vaticano II lamentatava un crescente distacco tra fede e vita: "La dissociazione, che si costata in molti, tra la fede che professano e la loro vita quotidiana, va annoverata tra i più gravi errori del nostro tempo." La denuncia resta tuttora valida. Non basta essere cristiani solo in chiesa o solo la domenica o solo quando ci si trova assieme ad altri cristiani. Gesù è venuto per cambiare la vita di quelli che credono in Lui e un cristiano non può non confrontarsi con Lui sia quando si tratta delle scelte grandi sia nelle piccole questioni di ogni giorno. È con la tutta la sua vita che il cristiano dimosta la sua fede. |