Omelia (27-09-2009) |
don Maurizio Prandi |
Tollerenza e radicalità La liturgia della Parola di questa domenica ci pone di fronte a due parole che sono certamente l’una l’opposto dell’altra: tolleranza e radicalità. Parole che il cristiano è chiamato a vivere perché da un lato lo aiutano a mantenere aperta la porta sul mondo che lo circonda richiamandolo continuamente all’umiltà (tolleranza), dall’altro lo pongono di fronte ad una appartenenza ben precisa, quella a Gesù e non ad un gruppo ristretto di persone (radicalità). Questa strada mi pare ci invitino a percorrere prima lettura e Vangelo di oggi. Nella prima lettura Mosè comunica lo Spirito di Dio a settanta anziani, che erano usciti dal campo e si erano radunati presso il tabernacolo. Sono belli i verbi dell’agire di Dio: scende, parla, prende lo Spirito, infonde lo Spirito, ma soprattutto è bello il modo dell’agire di Dio: il suo Spirito scende anche su chi non è vicino al tabernacolo, anche su chi non è davanti alla tenda. Un giovane nota con sorpresa tutto questo, che cioè lo Spirito si è posato anche su Eldad e Medad, che non erano usciti dal campo e anch’essi si mettono a profetare. Giosuè cerca di impedirlo, ma Mosè interviene mostrando una profonda libertà rispetto a ruoli, gelosie, volontà di gestire ciò che è sacro. Mosè ha un unico desiderio e lo esprime: che lo Spirito trasformi tutto il popolo, perché ciascuno possa lasciarsi guidare da Dio e comunicare ad altri la sua volontà. Ciò che è importante per Mosè è trasmettere l’idea che nessuno deve impedire o porre ostacoli all’azione dello Spirito. Questo ha alcuni punti di contatto con quello che sto vivendo qui a Cuba. Mi affido molto negli incontri, ai missionari che mi accompagnano, gente semplice, che a volte da non molto tempo ha ricevuto il primo annuncio della fede, ma che mi pare in profondo ascolto di Dio. Un po’ sono costretto, perché non conosco la lingua, un po’ voglio gioire per come Dio attraverso di loro e le loro parole raggiunge le vite e i cuori di chi partecipa alla catechesi. Della prima lettura mi piace sottolineare ancora questo: che gli anziani riuniti nello spazio sacro sono abilitati alla profezia, ma per un tempo (non lo fecero più in seguito) e i due che sono fuori dello spazio sacro, in mezzo alla gente, profetano più a lungo. Che bello, dalla tenda alla gente, da un luogo più ristretto (per superficie e partecipanti), ad uno spazio dove il numero delle persone e i confini sono dettati dallo Spirito! C’è una bella interpretazione, di un rabbino del dodicesimo secolo, che dice che i due che erano fuori della tenda non erano andati perché si sentivano indegni, e la loro umiltà aveva comunque attirato lo Spirito. Il Signore vede i cuori e dona il suo Spirito ai suoi eletti anche se non sono entro il confine visibile del luogo santo (Comunità di don Dossetti). E’ di una importanza capitale allora quello che il Concilio Vaticano II scrive nella Gaudium et Spes: noi dobbiamo ritenere che lo Spirito santo dia a tutti la possibilità di venire in contatto, nel modo che Dio conosce, col mistero pasquale. Non so sinceramente quanto io creda questo, perché lo spazio che riservo al dialogo e a chi la pensa diversamente da me è davvero molto limitato. Il messaggio del vangelo è il medesimo, se possibile ancora più forte, perché Gesù è solo in casa con i suoi discepoli e quello che afferma suona come una regola fondamentale per la comunità. Anche qui qualcuno cerca di impedire l’opera dello Spirito (Giovanni!!!), anche qui una visione rigida, chiusa della comunità, anche qui la gelosia che è quanto di più pericoloso ci possa essere per distruggere una comunità. Gesù insegna questa libertà profonda: non ha bisogno, Gesù, di monopolizzare il suo potere; gli basta che la verità sia riconosciuta; gli basta che l’uomo cerchi un legame, anche piccolo, anche implicito col Vangelo: il bicchiere d’acqua di oggi, o il quattrino della vedova nel tesoro del tempio sono ben poca cosa, ma basta questo perché l’uomo si trovi entro la sfera della salvezza. L’atteggiamento di ogni credente in Cristo deve essere quello di sostenere ogni bene che c’è e fare nascere il bene là dove manca. Valorizzare ogni esperienza anche piccola o faticosa di dono e di distacco da se stessi. |