Omelia (18-10-2009)
Il pane della domenica
Felici di servire l’altrui felicità

Il Figlio dell’uomo è venuto per dare la propria vita
in riscatto per molti


Il potere logora chi lo adora facendone l’idolo della propria vita, e inquina l’anima di chi lo ambisce, con le esalazioni micidiali dell’invidia e della gelosia, le terribili gemelle, figlie della madre di tutti i vizi, la superbia: è una esperienza, questa, che prima o poi, direttamente o indirettamente facciamo un po’ tutti. Quando un uomo si porta in cuore la voglia sfrenata di successo, e per il successo arriva fino al punto da vendersi anima e corpo, è finito. Per natura sua infatti il desiderio - ogni desiderio - è illimitato, e oltrepassa sempre la realtà, mentre il potere, per quanto solido e vasto, non potrà risultare alla lunga che limitato e precario, e per quanto se ne occupi una fetta via via più ampia e sicura, la bramosia di conquistarne quote ancora più grandi, a livelli sempre più alti, alla fin fine non potrà che rimanere inappagata. Chi ha raggiunto un primato non può superare se stesso all’infinito; potrà fino a un certo punto eliminare rivali e concorrenti, ma non riuscirà mai a surclassare il successore, che un giorno gli soffierà il primo posto. Il vizio della logica di potere è però all’origine: dove è scritto che "più si sale e più si vale"? Ed è proprio vero che "più potere si ha, più felici si è"?

1. In nessun momento della sua vita Gesù ha ceduto alle vertigini del potere, ma nei sentimenti più intimi come negli atteggiamenti più ricorrenti, nelle parole dette in pubblico o in privato come nelle scelte conseguenti da lui compiute, ha perseguito sempre un solo ideale: quello del servizio. Per riassumere tutta la sua vicenda, a s. Paolo bastano due semplici versetti: "Cristo non cercò di piacere a se stesso" (Rm 15,3), ma anzi "spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo" (Fil 2,7). In effetti, all’inizio dell’attività pubblica, appena battezzato da Giovanni al Giordano, la sua scelta di vivere come il vero servo del Signore ottenne il totale compiacimento del Padre, una scelta che subito dopo Gesù ratificò irremovibilmente nel deserto, quando venne tentato da Satana con il miraggio di "tutti i regni del mondo con la loro gloria".
Questa scelta Gesù l’ha puntualmente e fedelmente confermata in una svolta cruciale della sua vita, dopo la moltiplicazione dei pani, quando "stavano per venire a prenderlo per farlo re" e lui "si ritirò sulla montagna tutto solo" (Gv 6,15). Servo di tutti, schiavo di nessuno: così si presenta Gesù. Servo dei malati e dei peccatori, dei piccoli e dei poveri, mai egli si chiude alle necessità dei fratelli. E anche nei confronti dei discepoli, lui, il Signore e Maestro, agisce sempre e solo da servo, al punto che nella sera in cui viene tradito, riassume il suo testamento in quel gesto umilissimo, toccante e provocante, della lavanda dei piedi.
Nel vangelo appena proclamato, s. Marco ce lo descrive in cammino verso Gerusalemme. Il Maestro ha ribadito per la terza volta che sta andando nella città santa non per riconquistare il potere dalle aquile di Roma e rioccupare il trono di Davide, ma per dare la vita per amore. Gesù pensa al servizio, Giacomo e Giovanni al successo; lui parla del calice della prova, essi sognano il trionfo e la gloria.
Ma riascoltiamo la lezione del Maestro ai discepoli di ieri e di oggi, a proposito dell’unica ambizione legittima che deve nutrire un vero testimone del suo vangelo: "Allora Gesù, chiamatili a sé, disse loro: Voi sapete che coloro che sono ritenuti capi delle nazioni le dominano, e i loro grandi esercitano su di esse il potere. Fra voi però non è così: ma chi vuol essere grande tra voi si farà vostro servitore, e chi vuol essere il primo sarà il servo di tutti".

2. Viviamo un lungo inverno di sentimenti inariditi e di narcisismo asfissiante, i cui miti seducenti sono l’autorealizzazione ad ogni costo, l’autogratificazione a qualsiasi prezzo, l’autogiustificazione con qualunque scusa. Sempre più diffuso appare il contagio da "ego-patia": affermarsi per non morire; gli altri si arrangino pure. Io posso anche sbagliare, ma la colpa è sempre degli altri. Insomma Io, Io, Io e dopo, ma solo dopo, gli altri...
La spiritualità del servizio è il vaccino più efficace contro il morbo di Ego. È una spiritualità di buona lega, nella Chiesa e nella società. Eppure oggi sembrano circolare più dichiarazioni di servizio che veri servi. C’è chi parla della dignità del servizio quando è in posti di comando e chi rivendica la dignità della persona umana quando viene richiesto di svolgere un compito, a suo dire "umanamente poco dignitoso". Il servo, che appartiene alla vera compagnia dei servi di Gesù, è colui che fa quello che ai più non piace fare, che nel suo intimo non si porta un registro di cassa con la partita doppia del dare e dell’avere. Il servo secondo il vangelo è uno che scrive sulla sabbia quello che dona e incide sulla pietra quello che riceve; è colui che appartiene alla razza di quanti dopo aver fatto il loro turno, dicono: "Siamo soltanto dei poveri servi; abbiamo fatto quanto dovevamo fare" (Lc 17,10).
Questa è la strada della perfetta letizia. Se, dopo esserti consumato in un lavoro oscuro e logorante, non ti affliggi perché nessuno ti ringrazia, ma resti sereno e non perdi la pace, allora lì è perfetta letizia. Se non fai del successo - neanche di quello apostolico - il tuo Dio, ma consideri Dio e il suo amore immeritato come la tua fortuna più grande; se ti ritieni beato perché sei contento del Signore e non stai sempre a fare le lagne per come lui ti tratta, allora lì è perfetta letizia. Se non entrerai nel servizio del vangelo con lo spirito del salariato, ma in piena disponibilità, senza accampare pretese e senza rivendicare diritti; se penserai che c’è più gioia nel sentirsi amati che nel venire pagati; se riterrai il tuo premio più prezioso l’interiore certezza di ascoltare un giorno le parole del Signore, al quale unicamente hai servito: Bravo, servo buono e fedele, entra nel gaudio del tuo Signore, allora si può esserne sicuri: lì, solo lì, proprio lì, è perfetta letizia.
Alle esequie di madre Teresa di Calcutta, morta il 5 settembre 1997, al momento dell’offertorio si snodò la solenne processione che portava all’altare le offerte. Ultima giungeva la nuova superiora generale, che prendeva il posto della Madre, e offriva all’altare una semplicissima matita. Quell’umile simbolo voleva ricordare ciò che Madre Teresa aveva detto spesso: "Quando si legge una lettera, si pensa a colui che ha scritto la lettera, non alla matita con cui essa è stata scritta.. È esattamente questo che io sono nelle mani di Dio: una piccola matita. È Dio, Lui in persona, che scrive a modo suo una lettera d’amore al mondo, servendosi della mia opera".
Non è stato appunto questo, Gesù, uno strumento umile e incondizionatamente docile nelle mani del Padre, per permettergli di scrivere la sua lettera d’amore all’umanità? Noi che desideriamo prendere parte all’opera della salvezza, vogliamo offrirci a Dio Abbà con Gesù, suo Figlio e fratello nostro; vogliamo accettare di bere al calice della sua passione; vogliamo anche noi dare la nostra vita "in riscatto per tutti gli uomini".
Nasce così la Chiesa, "comunità alternativa", identificata dal cardinal Martini come "una comunità che, in una società connotata da relazioni fragili, conflittuali e di tipo consumistico, esprima la possibilità di relazioni gratuite, forti e durature, cementate dalla mutua accettazione e dal perdono reciproco".
È la Chiesa che sogniamo, e che ad ogni costo vogliamo essere.

Commento di mons. Francesco Lambiasi
tratto da "Il pane della Domenica. Meditazioni sui vangeli festivi"
Ave, Roma 2008