Omelia (11-10-2009) |
Marco Pedron |
Così ricchi, così poveri All'inizio della vita noi eravamo una cosa sola con nostra madre: eravamo attaccati a lei. Era un tempo meraviglioso perché non c'era nulla da fare. Tutto era pronto, tutto era garantito, tutto era a disposizione. Il supermercato del cibo era incorporato con noi; non c'erano problemi di relazione perché l'unica persona che c'era (nostra madre) era in perfetta sintonia con noi; non c'erano pericoli perché eravamo veramente dentro una campana di vetro che ci proteggeva. Quando siamo nati c'era ancora quella donna lì, eravamo attaccati a lei, alla sua pelle e questo ci dava sicurezza perché sentivamo che lei c'era sempre. Eravamo attaccati al suo seno e così ogni problema di cibo era garantito; eravamo attaccati alle sue "gonne" e così eravamo tranquilli e al sicuro; eravamo attaccati al suo amore e questo riempiva tutta la nostra fame d'amore. C'era lei e tutto sembrava garantito. Per questo divenne il nostro idolo, la nostra ricchezza: bastava che ci fosse lei e tutto era a posto. Nostra madre è stato il nostro idolo, la fantastica ricchezza della vita: c'era lei e tutto era garantito. Non c'era da far fatica, da soffrire: ci pensava lei. Se avevamo qualche problema bastava piangere; se avevamo fame bastava piangere; se dovevamo essere puliti bastava piangere. Così dentro di noi si è creata l'idea che esiste qualcosa che ci farà felici. Che se troveremo quella cosa lì, quella persona lì, saremo a posto per sempre, come con nostra madre. E' il peccato dell'origine: credere che ci sia qualcosa, che, una volta ottenuta, ci garantirà da tutto. La maggior parte della gente passa tutta la vita a cercarla; a cercare ciò che non c'è. Ogni volta che noi ci attacchiamo a qualcosa o a qualcuno e lo assolutizziamo noi perpetuiamo quel legame d'origine. Ci attacchiamo ad una cosa e crediamo che senza di lei non potremo vivere. Ci attacchiamo ad una cosa (o persona) e le diciamo: "Tu fammi felice". Era quello che chiedevamo a nostra madre quando le eravamo attaccati. E' che adesso siamo grandi e nessuno può più, né deve, farci da madre. Questa ricchezza ha molti nomi ma in definitiva è il tentativo di ritornare al legame materno. Il problema è che cerchiamo qualcosa che doveva esserci ma che oggi non c'è. Quindi la nostra ricerca è destinata tristemente a fallire. Nessuno può saziarci di tutto ciò di cui abbiamo bisogno. Il vangelo di oggi parla proprio di questo. Il vangelo racconto di un uomo. L'uomo non ha un nome, d'altronde i ricchi nel vangelo non hanno mai il nome (pensate al ricco e il povero Lazzaro Lc 16,19-31). Questo perché l'uomo ricco compensa con la ricchezza la mancanza d'identità, di personalità. L'uomo va da Gesù. Anzi: gli corre incontro, cioè, ha un gran desiderio dentro, è molto motivato. L'uomo è in ricerca, sente che qualcosa manca, sente che c'è un di più da ottenere. Fosse stato a posto non si sarebbe dato così tanto da fare, né avrebbe corso. C'è un vuoto dentro di sé. E' per questo che noi ci riempiamo di tutto: cose da fare, oggetti, soldi, sempre nuove esperienze. Abbiamo bisogno di sedare, di non sentire la sofferenza, l'inquietudine, la solitudine naturale che c'è dentro e che ci spinge a cercare, a non fermarci, ad approfondire il nostro livello di vita. Quest'uomo s'inginocchia come si faceva con i maestri. Inginocchiarsi fa capire il desiderio di sapere, di imparare, mette in luce l'umiltà e la disponibilità a ricevere. Chiama Gesù buono e qui Gesù si secca: "Perché mi chiami buono?". "Non adularmi, non farmi troppe moine, complimenti gratuiti". Gesù ha percepito che l'uomo lo sta esaltando troppo, lo sta idolatrando. Gesù sembra dirgli (questa frase ha bisogno di una profonda riflessione teologica perché ha delle notevoli ripercussioni): "Non sono mica Dio (!). Solo Lui è buono. Non idolatrarmi troppo, non fare di me l'assoluto, non pendere dalle mie labbra". Gesù ristabilisce la distanza di salvezza: "Guarda che non sono buono, cioè perfetto. Quindi prendi con attenzione ciò che dico. Non mangiarlo solo perché te l'ho dato io. Prima di mangiarlo accertati che sia un cibo sano". Questo è il rischio delle persone deboli e fragili. Per i bambini la mamma e il papà sono tutto. Quello che dicono loro è verità sacrosanta. Neppure immaginano che anche loro, come tutti, sbagliano e abbiano difetti. Molti "bambini", anche se hanno cinquanta-sessant'anni pendono, sono dipendenti da qualche guru, da qualche gruppo, da qualche leader: tutto quello che fanno o che dicono è la verità, la Bibbia incarnata. Ad un colloquio di assunzione l'esaminatore chiede al candidato: "Quanto fa due più due". Il candidato risponde: "Quattro". "Grazie. Se ci interessa la richiameremo noi (mai!)". Esaminatore: "Quanto fa due più due". Candidato: "Quello che vuole lei". "Benissimo, lei è assunto immediatamente". Einstein diceva che per molti uomini il cervello (la capacità di pensare) è un di più per le loro esigenze. E' un modo per non crescere, per deresponsabilizzarsi, per non far la fatica di vagliare tutto. Queste però. Sono persone però che se per caso sbagliano o falliscono ti accuseranno: "Me l'hai detto tu! Mi avevi garantito che...! Il prete mi aveva detto che ... Credevo che facendo il tuo corso... Ma nel catechismo c'era scritto che...". "No, amico, la tua vita è tua. Qualunque cosa ti dicano gli altri solo tu ne sei responsabile". E molti leader dovrebbero fare come Gesù e dire ai loro fedeli: "Non sono Dio. Credetemi non perché lo dico io ma solo perché ne avete verificato e sperimentato la verità". Gesù gli fa una prima proposta: "Osserva i comandamenti". L'uomo, è uno che ha osservato tutti i comandamenti fin da quand'era piccolo. E quando dice così è veramente onesto, vero. Non è un orgoglioso, un vanitoso, uno che "monta" le cose. Questo uomo sta veramente cercando, veramente vuole placare e colmare la sua sete di vita, veramente vuole vivere ad alta quota, veramente ha un'anima grande. Se è andato o da Gesù è perché cerca qualcosa di più; perché ciò che gli altri maestri gli hanno trasmesso, detto, insegnato, non lo ha convinto nel cuore. Lui vuole cose vere; lui vuole andare al centro delle cose. "Sì, sì, Maestro, conosco tutti i comandamenti (il catechismo di allora), li ho sempre osservati, ma non mi basta. Io cerco qualcosa di più. Io cerco qualcosa che mi entri nell'anima". Gesù si ferma e lo fissa. Lo stesso Gesù rimane colpito dalla ricerca dell'uomo. Fissare (em-blepo) vuol dire proprio penetrare dentro. Gesù lo guarda per accertarsi della cosa: "E' proprio così; è proprio vero quello che dici; hai proprio un'anima grande dentro". A questo punto si dice una cosa meravigliosa e rara nel vangelo: "Fissatolo, lo amò". Perché lo ama Gesù? Perché quest'uomo è uno di quelli - e non sono tantissimi - che va oltre la norma, ciò che è giusto/non giusto. In fondo era in regola, era più che "religioso" per quel tempo, era una gran brava persona. Socialmente era uno riconosciuto da tutti, stimato per la sua vita. Ma questo uomo non cerca l'approvazione sociale, non cerca il riconoscimento, cerca la Vita. Molte persone rimangono appagate dall'essere considerate "ricche", "perbene", " belle", "famose" "sagge". Gesù rifiuta subito questa cosa: "Perché credi che io sia buono (saggio)?". Molte persone sono gratificate nel loro narcisismo dal fatto che gli altri li considerano importanti. Magari uno fa anche delle cose buone, bellissime, ma se le fa perché gli altri lo possano stimare, apprezzare, considerare una "buona persona" lo fa', tutto sommato, per interesse. Quale? Il suo! Un uomo perfettamente religioso arriva alle porte del paradiso. Tutto tranquillo e orgoglioso di sé (non ha mai fatto un peccato, ma neanche uno di uno) bussa alle porte del paradiso. S. Pietro digita il suo nome nel computer e gli dice: "Mi dispiace lei non c'è". "Come!? Io non ci sono? Ma se non ho mai fatto neppure un peccato?". "E' vero, ma le porte del paradiso non si aprono con chi non pecca ma con chi ama!". Un uomo così ha vissuto sempre nel tentativo di guadagnarsi il paradiso (per questo non ha peccato). E non vi pare un agire interessato, questa? Gesù amava le persone, invece, che avevano superato la paura di cosa gli altri potrebbero dire o pensare. Gesù amava quelle anime che volevano entrare nel mistero della vita; anime infuocate, anime capaci di scelte grandi, di dire "no" decisi e forti e "sì" rischiosi. Gesù avverte che in questo uomo c'è qualcosa in più. L'amore di Gesù è il fargli vedere ciò che può essere, ciò che può vivere, ciò che ha dentro. Allora Gesù gli fa una grande proposta: "Va', vendi quello che hai, poi vieni e seguimi". L'amore è questo: l'amore non è volere che l'altro diventi come noi vogliamo, secondo i nostri criteri, come a noi piacerebbe o quello che noi abbiamo in mente. Amare è scorgere il tesoro dentro le persone: "Tu hai qualcosa di grande, fidati di ciò che hai dentro". "Tu hai un respiro più alto, non strisciare per terra"; "Non accontentarti, osa, segui ciò che senti e sii felice"; "Non so ciò che farai ma ciò che so è che tu hai ali d'aquila. Vola conforme al tuo essere". L'amore è questo: l'amore ti risveglia le forze nascoste, ti fa vedere la tua grandezza, ti mostra che tu sei grande, che hai un valore, che sei importante. Chi ti ama, se ti ama, ti mostra la tua grandezza. L'amore ti invita e ti spinge a percorrere la tua strada, a buttarti in prima persona. Spesso questo vangelo è stato letto così: "Se sei ricco non puoi seguire Gesù". Oppure: "Se non dai ai poveri tutto quello che hai non puoi seguire Gesù". (Se fosse così la Chiesa sarebbe messa davvero male soggettivamente ma molto bene economicamente!). Gesù però non attacca solo la ricchezza materiale (come era per quest'uomo) ma ogni attaccamento. L'attaccamento è credere che una cosa, che quella cosa ci farà felici. Mentre la realtà insegna che nessuna cosa ci può fare felici se non il regno di Dio. E l'uomo dinnanzi la proposta di Gesù rimane sorpreso. Finché Gesù gli ha chiesto di fare qualcosa, tutto bene. Ma adesso che gli ha chiesto di fare il grande passo se ne va triste. Se ne va triste perché si rende conto anche lui che le due cose non possono stare insieme: o l'una o l'altra. Triste soprattutto perché si rende conto che deve fare un salto, un passaggio chiave. Deve correre un rischio ma la paura lo frena. In certi giorni dovremo lavorare sul limare ciò che siamo; ma in qualche giorno ci verrà chiesto di fare un grande salto. E lì non si tratterà di fare meglio le cose ma di operare scelte senza ritorno. La tristezza del ricco è profonda: quell'uomo ha detto "no" a sé. Gesù aveva visto in lui qualcosa di grande. Lui stesso percepiva il richiamo (non gli bastavano i comandamenti) ma non ha avuto il coraggio di prendere il largo. Più che a Gesù, ha detto "no" a sé: si è accontentato. Poteva vivere alla grande; poteva vivere esprimendosi; poteva vivere volando ad alta quota ma per paura ha scelto di no. E' questo che rende veramente tristi gli uomini: quando per paura rinunciano a ciò che potrebbero essere, a ciò che potrebbero diventare, alla forza che li abita dentro. E questa tristezza è permanente: perché l'aquila porta sempre in sé la memoria di ciò che è; e il richiamo delle vette e dell'altezza non si può mai cancellare. Così l'uomo non può mai dimenticare per che cosa è fatto. Le gambe dell'uomo sono a terra ma la sua testa è nel cielo. L'uomo è fatto per il cielo. E ogni vivere a livelli inferiori porta con sé un inevitabile tristezza. Al tempo di Gesù c'erano alcuni che pensavano che tramite buone azioni, tramite preghiere o una vita integerrima o vendendo tutti i propri beni, si sarebbero garantiti il regno di Dio. Un po' come le raccolte che si fanno dal benzinaio. Se hai tot numero di bollini hai diritto al premio. "Non solo è difficile - dice Gesù - ma è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago". Ora che un cammello passi per la cruna di un ago non solo è difficile ma impossibile. Qui non si vuol dire della possibilità rara; qui si vuol dire: "Questo non è possibile". Gesù dice: "Amico, il regno di Dio non dipende da te". Presso gli uomini non ci si può conquistare il regno di Dio. E' Lui che te lo dona, gratuitamente. Ma tutti i tuoi meriti e le tue buone azioni non ti garantiscono nulla. Ma allora: se sei ricco non ti salvi; se sei povero neppure (solo Dio salva). Tanto vale essere ricchi. Ma la ricchezza non fa vivere. Ricchezza è, per Gesù, ciò a cui tu non puoi fare a meno; è ciò a cui ti attacchi. L'attaccamento, la ricchezza, è tutto ciò che tu credi che senza di quello non puoi vivere o essere felice. Ai fidanzati do lo slogan: "Se posso vivere senza di te allora posso vivere con te". Li metto uno di fronte all'altro e gli dico di dirsi: "Tu non sei la mia felicità". Quasi nessuno capisce all'inizio. E poi dico di pensare alla propria madre, al proprio padre o al figlio che verrà e di dirgli: "Io posso vivere senza di te" (10,29-30). Quasi tutti si rifiutano di dirlo e ne sono disgustati. La maggior parte non prende in esame l'idea che vi possa essere qualcosa da imparare in quello che stanno facendo. E questo è un segno chiaro di quanto noi ci attacchiamo e deleghiamo agli altri la nostra felicità dicendo loro (non apertamente ma in realtà): "Fammi felice". Ci sono delle cose o delle persone a cui abbiamo dato il potere di renderci felici o tristi. E noi viviamo in funzione solo di quello. Pensiamo che senza non potremo andare avanti. Pensiamo che se ci mancassero la nostra vita sarebbe finita, non avrebbe più senso. Per cui ci attacchiamo sempre di più (sanguisughe), aumentando l'ansia e la paura di perderle. Ma quando ci attacchiamo agli altri in realtà, li stiamo usiamo: "Se io ho bisogno assoluto di te allora ti sto usando per la mia felicità. Siccome io non sono felice ho bisogno di te per esserlo". Quando eravamo piccoli non vedevamo l'ora di diventare grandi e maggiorenni: "Quando sarò grande farò quello che voglio, avrò l'auto, potrò uscire di casa e mi cercherò il lavoro che mi piace". Pensavamo che quella fosse la soluzione dei nostri problemi (c'eravamo attaccati a quell'idea). Il punto è che siamo diventati maggiorenni ma non fu la soluzione. Quando da adolescenti eravamo senza motorino dicevamo: "Che triste che sono! Che sfigato! Sono l'unico della mia compagnia che non ha il motorino!". Quando poi il motorino è arrivato (passata la prima settimana) abbiamo continuato ad essere tristi. Ma non è diverso per noi adulti. Quanti di noi hanno pensato che il giorno il cui avrebbero trovato la moglie o il marito avrebbero risolto i loro problemi di solitudine, di mancanza d'amore e di tristezza. Così tu corri dietro ad una donna per mesi; spendi un sacco di soldi e di energie ma dentro di te pensi: "Ne vale la pena, quando l'avrò, sarò l'uomo più felice della terra"; poi la conquisti e te la sposi. Ma poi vedi che non è proprio come tu credevi. Ti accorgi che non è perfetta e che non riesce a farti sempre felice. Allora ti arrabbi e le dici: "Sei cambiata, non sei più quella di una volta". "No, sei tu che vedevi quello che non c'era o solo quello che volevi vedere". Quante persone dicono: "Senza di lei/lui non posso vivere". Non è segno di tanto amore. E' solo segno di dipendenza, di attaccamento. E quando qualcuno mi dice: "Tu non mi fai felice!", io gli dico: "Non è un mio compito (ma tuo)!". Quante persone credono che se saranno esteticamente belle saranno felici. La chirurgia estetica su quest'illusione sta facendo i soldi e io la consiglio sempre ai laureandi di medicina: lì c'è lavoro e soldi per tutti in futuro. Oggi quante siano le donne (e anche gli uomini) che si "rifanno" è qualcosa di sbalorditivo. Quando sono "rifatte" non sono però più felici di prima. Per non parlare di settantenni che sembrano statue di cera o bambole di plastica. Hanno fatto un servizio sulle persone che si ritiene abbiano il miglior corpo al mondo (c'era Brad Pitt; Angiolina Jolie; Cameron Diaz, ecc). Tutti costoro fanno almeno due ore di palestra ogni giorno; una dieta rigorosa e inflessibile; sono dall'estetista almeno due volte la settimana; dal parrucchiere almeno un giorno sì e uno no; e di tanto in tanto è necessario qualche "ritocco". L'attaccamento al corpo, all'immagine, all'apparire diventa una schiavitù. E' come la droga: non se ne può fare a meno, perché senza di quello ci si sente persi o semplicemente nulla o falliti. La pubblicità è la stessa cosa. Funziona sul principio: "Senza di me non puoi stare". Se tu ci cadi e compri l'economia "gira con te". Ma sono bisogni indotti non reali. L'attaccamento (ricchezza per il vangelo) può avvenire per tutto: tradizioni ormai passate; i fatti della vita; le nostre idee mentali o le nostre aspettative. Non si vuol lasciar andare ciò che non c'è più. C'era un prete simpatico, affascinante, amabile, pieno di talento e brillante. Insomma aveva tutte le doti che uno può sperare di avere. Aveva però un'ossessione o un problema: con i suoi inferiori in certe situazioni diventava "una iena" e perdeva il controllo di sé. Era andato da un grande maestro per capire come risolvere il problema. Il maestro gli disse: "Finché tu ti nascondi qualcosa non potrai risolverlo". "Ma io non ti nascondo niente". Due anni più quel prete tardi ritornò: "Maestro, è vero, mi (e ti) nascondo qualcosa. Mio padre e mia madre erano poveri e lavorano a pulire i gabinetti e le toilettes; lavoravano anche sedici ore per guadagnarci i soldi per sfamarci. Io mi vergogno da morire". Scoppiò in pianto ma da quel momento non ebbe più quel problema. Non ne era più attaccato. Un giorno vado in casa di una donna sui sessant'anni. I suoi figli mi dicono che da tanto tempo è depressa. Entro e la vedo piangere. Allora le chiedo: "Cosa c'è signora?". "Sto piangendo per la morte di mia madre". "Oh, mi scusi, signora, non avevo saputo niente". "Sa, è morta quando io avevo dieci anni". Cinquant'anni in cui non era ancora riuscita a staccarsi! Ogni sera, quando il guru si sedeva per adorare, il gatto dell'ashram si cacciava fra i piedi degli oranti e li distraeva. Perciò egli ordinò che il gatto fosse legato durante l'adorazione serale. Dopo la morte del guru, il gatto continuò ad essere legato durante l'adorazione della sera. E quando il gatto morì, un atro gatto fu portato nell'ashram per essere debitamente legato durante l'adorazione serale. Qualche secolo dopo i discepoli eruditi del guru scrissero dei dotti trattati sul significato liturgico dell'usanza di legare un gatto durante l'adorazione. Vi fa ridere? C'è da piangere a pensare a tutto quello che facciamo semplicemente perché lo abbiamo sempre fatto o perché non ci poniamo la domanda se abbia ancora senso. C'è un uomo che da quando gli ho detto che Adamo ed Eva non sono mai esistiti storicamente non viene più in chiesa. Si è attaccato a quella convinzione e non c'è verso di prospettargli altre possibilità. Una ragazza all'esame di maturità non ha preso 100/100 ma solo (!) 92. Ha fatto due ricorsi perché la valutazione - dice lei - è falsata. Può anche darsi che lo sia ma c'è da chiedersi cosa sarebbe successo se avesse preso 70. Si era attaccata all'idea che solo un 100 poteva essere adeguato a lei. Se si può potesse vivere senza nulla si potrebbe gustare tutto. Un giorno stavo tenendo un incontro con gli insegnanti. Siccome ero andato a dormire e non avevo sentito la sveglia, mi ero vestito velocemente per non arrivare in ritardo. Arrivato puntuale, appena in tempo, mi siedo e inizio l'incontro. Tutti gli insegnanti (tutte donne!) sono davanti a me. Naturalmente mi stavano squadrando dall'alto al basso. A quel punto un dubbio atroce: "Mi sono messo i calzini storti". Il punto è che io ero dietro alla cattedra e che non li vedevo, mentre loro sì (era una di quelle cattedre aperte davanti). "Oddio, mi pare proprio di sì! Che figura! Cosa diranno?". Finché non ho mandato via quel pensiero dicendo: "E anche se fosse?", non sono riuscito a rilassarmi e ad entrare nell'incontro. Ero attaccato alla paura di fare brutta figura. Quando sei attaccato all'effetto da ottenere ti riempi d'ansia. Ci fu un tempo in cui predicavo e tutto andava bene. Le mie omelie piacevano e - disgraziatamente (capite!) - qualcuno iniziò a dire: "Oh, ma sai che dici delle cose che toccano il cuore e che penetrano nell'anima". Io ero felicissimo ma invece avrei dovuto disperarmi della cosa. Così senza volerlo mi imposi che dovevo assolutamente dire cose profonde, significative, mai stupide e mai banali; dovevo avere effetto, essere brillante, essere spigliato e incisivo, e soprattutto sempre nuovo. Voi capite che preparare un omelia era diventato impossibile. Così nel tempo successivo ho imparato a disinteressarmi se è la predica è bella o no: è questa. Vi piace? Bene. Non vi piace? Bene lo stesso. Se ti attacchi al fatto che devi fare sempre un bell'incontro, essere accettato e applaudito dagli altri, dai agli altri un potere terribile. E tu ti metti in una situazione di ansia terrificante: devi risultare gradito! La gente passa da una ricchezza all'altra. Prima era quella donna; poi quell'auto; poi quel posto di lavoro; poi la casa in Sardegna; poi quell'altra posizione sociale. E così passa ad inseguire, traguardi dopo traguardi, qualcosa che non c'è e che non raggiungerà mai. La realtà è che di tutto ciò che esiste posso dire:"Sono felice che tu ci sia, stai qui. Ma non sei tu la mia felicità". Il guru era seduto in meditazione sulla riva del fiume, quando un discepolo si chinò per porre due perle enormi ai suoi piedi come segno di riverenza e devozione. Il guru aprì gli occhi, prese una delle perle, e la tenne in modo così disattento che essa gli scivolò di mano e rotolò giù per la riva fin dentro il fiume. Il discepolo, inorridito, si tuffò in acqua per cercarla, ma sebbene si fosse immerso ripetutamente fino a tarda sera, non ebbe fortuna. Infine, tutto bagnato e sfinito, interruppe la meditazione del guru: "Hai visto dov'è caduta. Indicami il luogo, cosicché passa recuperarla per te". Il guru prese l'altra perla, la gettò nel fiume e disse: "Proprio lì". Non cercare di possedere le cose, poiché le cose non possono essere possedute realmente. Fai solo in modo di non esserne posseduto e sarai il sovrano della creazione. Pensiero della Settimana Quello che possiedi ti possiede. |