Omelia (25-10-2009) |
Il pane della domenica |
Senza fede non si vede Rabbunì, che io riabbia la vista! Quando leggiamo il vangelo, ci viene spontaneo e, forse, ci risulta anche abbastanza facile sostare in meditazione sull'una o sull'altra delle tante parole di Gesù. Ne siamo certi: anche se i cieli e la terra passeranno, quelle parole non passeranno. Anzi dopo duemila anni conservano intatto il fascino di una freschezza inesauribile e di un'attualità sorprendentemente inossidabile. A volte capita che una parola, magari ascoltata più volte, brilli improvvisamente di luce nuova e sprigioni un messaggio mai prima percepito. Altre volte anche una parola scelta a caso dal vangelo risuona con vigore più vivace e sembra detta apposta per ognuno di noi, singolarmente preso, nella propria irripetibile situazione. In un gruppo di ascolto del vangelo spesso succede che la stessa parola, passando per il prisma della vita delle varie persone, si rifranga nello spettro variegato del piccolo gruppo, secondo sfumature, vibrazioni e tonalità inedite e del tutto imprevedibili. Davvero "le parole del Signore crescono con coloro che le leggono", affermava s. Gregorio Magno. Noi però sappiamo pure che Gesù rivela il Padre non solo con le parole, ma anche e prima ancora con gesti e azioni, fatti ed eventi, e quindi anche un racconto di miracolo è - come acclamiamo al termine della sequenza del santo vangelo - "parola del Signore". Proviamo perciò a decodificare la parola che il Signore ci vuole comunicare attraverso il racconto del cieco di Gerico. 1. Innanzitutto guardiamo alcontesto del brano. Quello della guarigione di Bartimeo è l'ultimo miracolo di Gesù riportato da s. Marco. Gesù è a Gerico, a pochi chilometri dalla città santa e a pochissimi giorni di distanza dall'inizio della settimana santa, ultima tappa del suo pellegrinaggio terreno. Il Maestro ha appena rimproverato i discepoli perché non vogliono comprendere il suo messaggio di croce e di servizio, come abbiamo ascoltato nel vangelo di domenica scorsa. Riusciranno mai ad aprire gli occhi o si ostineranno nella loro ottusa cecità? Subito dopo la guarigione miracolosa di Bartimeo, Marco riporta l'ingresso messianico di Gesù a Gerusalemme, dove verrà acclamato con espressioni che fanno riferimento al "regno del nostro padre Davide", espressioni che riecheggiano lo stesso titolo con cui lo invoca qui Bartimeo: "Figlio di Davide, abbi pietà di me!". Dopo il contesto, fissiamo ora la cornice immediata del brano evangelico. Fin dall'inizio del racconto, s. Marco è l'unico, rispetto ai paralleli di Matteo e di Luca, a inquadrare esplicitamente i discepoli attorno a Gesù. Non è un dettaglio insignificante, vista la particolare attenzione che l'evangelista pone nel descrivere il cammino dei Dodici dietro a Gesù: non è forse un modo per dire che non basta al discepolo seguire fisicamente il Maestro, se poi gli occhi del suo cuore, anziché aprirsi alla croce, guardano altrove? Alla fine del brano, ancora una volta s. Marco ha una pennellata del tutto originale, quando descrive il cieco guarito che "lo seguiva per la via", quasi a dire: ecco finalmente un vero discepolo, che ci vede veramente e si mette fedelmente al seguito di Gesù, in cammino per la sua "via", una via che va verso la croce, e non - come credono i Dodici, accecati nelle loro illusioni trionfalistiche - verso la gloria di un regno mondano. A questo punto non ci rimane che entrare nel testo e fissare un particolare, anch'esso tipico dell'evangelista Marco. Quando Gesù fa' chiamare il cieco che sta mendicando ai bordi della strada, Bartimeo "gettato via il mantello, balzò in piedi e venne da Gesù". Il mantello per un povero cieco era la coperta per la notte, faceva da casa e rifugio, insomma costituiva la sua unica proprietà, un minuscolo capitale. Per questo, secondo la legge in Israele, bisognava restituirlo al povero, che l'aveva dato in pegno, prima del tramonto del sole, "perché egli - si legge nel libro del Deuteronomio (24,12) - possa dormire con il suo mantello e benedirti". Gettandolo via, Bartimeo, a differenza del giovane ricco, dà via ogni sicurezza, senza esserne richiesto, pur di avere la luce di Gesù e pur di seguirlo senza alcun impaccio, come un vero seguace, libero, disponibile e fedele. Il Maestro infatti gli dice: "Va', la tua fede ti ha salvato", ma Bartimeo non se ne va, e invece, proprio perché non solo vede, ma crede - o meglio, vede perché crede - anziché "andarsene", si mette a "seguirlo per la via". Così viene alla luce un autentico discepolo. 2. Attraverso questa rilettura, il cieco di Gerico diventa ai nostri occhi modello ideale e specchio fedele di ciascuno di noi. Gesù è la luce del mondo, la luce che dà colore e calore alla nostra vita. Prima della fede, anche noi eravamo ciechi e mendicanti. Abbiamo invocato il nome del Signore Gesù e quel nome, Jehoshuà, che significa "Dio salva", ci ha veramente salvato dalle tenebre e ci ha proiettati nella luce di Dio. La fede allora non è "quella vecchietta cieca" di cui parlava Trilussa in una famosa poesia, e come ritiene tanta gente, anche credente, secondo cui "chi pensa non crede e chi crede non pensa", come se ragione e fede fossero in opposizione irriducibile o in proporzione inversa. La fede è tutt'altro che una sorta di conoscenza inferiore; è anzi una "super-conoscenza", in quanto permette al credente di conoscere veramente come stanno le cose, di contemplare ciò che occhio non vide né orecchio mai udì. Il credente è un uomo illuminato: può vedere finalmente la realtà vera, al di sotto del velo ambiguo e seducente delle apparenze. Anche il mistero della vita e l'enigma della storia gli appaiono sotto una luce nuova, al di là di ciò che colpisce e abbaglia: la croce non è più la smentita di Dio, ma la sua conferma; il peccato diventa "la felice colpa" che permette alla grazia di stravincere sulla nostra debolezza; la morte non è la fine catastrofica di un piacevole viaggio turistico, ma la porta che si apre sulla felicità eterna; la vera grandezza nel mondo non è costituita dal successo o dal potere, ma dall'amore e dal servizio. Del resto non è poi vero che chi non ha fede, non crede a niente. È anzi facile dimostrare - dati alla mano - che l'alternativa alla fede è spesso quella che non si può chiamare altrimenti che creduloneria, come risulta dal dilagare di maghi, oroscopi, e maestri non da quattro ma da molti soldi (!). Non è vero che la fede uccide la ragione: semmai la tiene in vita! Infine Bartimeo ci ricorda che la fede richiede la rinuncia a quelle false certezze, a quelle sicurezze traballanti e a quegli appoggi fasulli, che ci fanno da "mantello" di rifugio e protezione. La fede è scelta di vita. Tra poco noi rinnoveremo la nostra professione battesimale. Preghiamo perché la partecipazione all'eucaristia continui quell'opera di guarigione e di illuminazione, cominciata con il nostro battesimo, ma che deve essere attentamente purificata, tenacemente ripresa, instancabilmente proseguita. Commento di mons. Francesco Lambiasi tratto da "Il pane della Domenica. Meditazioni sui vangeli festivi" Ave, Roma 2008 |