Omelia (25-10-2009)
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Commento su Marco 10,46-52

PRIMO COMMENTO ALLE LETTURE

A volte ci sono delle coincidenze che mi fanno pensare che gli eventi che vivo non siano puramente casuali.
Da diverso tempo, da metà settembre circa, come ogni volta che devo pubblicare una riflessione sul sito con cui collaboro, meditavo dentro di me il contenuto del vangelo che viene proclamato in questa trentesima domenica del tempo ordinario, in questo caso l'episodio del cieco di Gerico.
Questo brano è l'ultimo miracolo raccontato dal Vangelo di Marco (successivamente viene narrato solo l'episodio del fico sterile, che, rispetto ai miracoli, ha una valenza diversa).
La scena si svolge a Gerico, città della Giudea nella valle del Giordano, che si trova circa 27 chilometri a Est di Gerusalemme. Più precisamente, Gerico è a 400 metri sotto il livello del mare. Gesù vi passa iniziando la sua salita verso Gerusalemme, dove mediante la Passione e Resurrezione manifesterà la Sua gloria.
Dunque, Gesù passa da Gerusalemme attorniato da "molta folla" e dai suoi discepoli.
Ed ecco che fra questa moltitudine si staglia un personaggio: l'evangelista lo individua in maniera molto precisa, evento raro nel Vangelo di Marco, che, di norma, identifica con precisione soltanto i discepoli.
Ci viene indicato, in questo caso, non solo il nome della persona che interagisce con Gesù, ma anche una sua caratteristica particolare e la sua attività nel momento che si svolge l'episodio, dice il testo: "il figlio di Timèo, Bartimèo, che era cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!».
Ho provato ad immaginare varie volte la scena, Gesù che passa attorniato da tanti e questo uomo disgraziato, probabilmente fastidioso, che urla per richiamare l'attenzione.
Il suo urlare dà noia ai discepoli e forse anche alla folla presente che segue Gesù.
Magari nel vedere l'atteggiamento dei discepoli ci viene da sorridere con una certa sufficienza: infatti rimproverando Bartimeo per farlo tacere, sembra che i discepoli detengano le norme di come ci si deve comportare in presenza del Signore. In realtà è logico che i discepoli lo rimproverino!
Questo uomo non solo è cieco, evento che per la mentalità giudaica era simbolo di peccato,
(un riferimento sicuro di questo, si trova nel Vangelo di Giovanni quando i discepoli interrogano Gesù sull'origine dell'infermità del cieco nato: la cecità è colpa del suo peccato o di quello dei suoi genitori? Cf. Gv 9,2) ma osa anche insistere alla presenza del Signore, disturbando con le sue necessità!
Questo cieco, quindi peccatore, non solo non ci vede, ma oltretutto mendica, urla troppo ed è anche insistente, si comporta in maniera non consona... Possiamo ben pensare che i discepoli siano infastiditi!
Comunque a Bartimeo non importa nulla del giudizio di chi cerca di metterlo a tacere e cerca di richiamare, in tutti i modi, l'attenzione del Signore «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!» e poi ancora più insistentemente chiede aiuto "(ma) egli gridava ancora più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!» e non solo si riconosce bisognoso di soccorso (quindi ha anche la capacità di proclamarsi debole, e magari peccatore, ma riconosce in Gesù, colui che può salvarlo.
Il Signore risponde a chi lo cerca e a chi sa seguirlo (è da notare e mi commuove notare che la sequela è non solo adesione ad una fede, ma anche movimento: nel testo considerato vi è un succedersi di verbi che indicano il movimento (egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù). Non esiste conversione senza adesione alla chiamata di Gesù. Non esiste conversione senza movimento e senza l'intenzione di partire alla sequela, gettando via lo stato esistenziale pre-esistente (il cieco getta via il mantello e noi per seguire il Signore cosa siamo disposti a lasciare....).
Il dialogo fra il Signore ed il cieco è improntato dalla sollecitudine e dalla tenerezza reciproca, ne è manifestazione la domanda di Gesù: «Che cosa vuoi che io faccia per te?».
E' la domanda dell'amore totale, offrire ad un altro la realizzazione dei suoi desideri.
Ma anche il termine "Rabbuni" con cui il cieco risponde a Gesù è pieno di affetto; il suo significato è "maestro mio", non "rabbi" maestro, ma qualche cosa di più che indica un'intimità del cuore.
Avviene il miracolo: il cieco riacquista la vista.
La conclusione del brano è lapidaria, ma densa di significato.
E Gesù gli disse: «Va', la tua fede ti ha salvato». E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada.
La fede non solo salva, ma permette di seguire Gesù lungo la strada che porta verso Gerusalemme, permette di dividere da subito il destino di Gesù.
A volte ci sono delle coincidenze che fanno pensare che gli eventi che viviamo non siano puramente casuali.
Dunque il mio pensiero era da diverso tempo su questo brano del Vangelo, e ne avevo anche ragionato insieme al mio padre spirituale, con cui, di solito mi confronto prima di scrivere queste mie riflessioni evidenziando a lui e a me stessa, esplicitando le mie considerazioni, che cosa mi colpiva in questo brano e su cosa avrei incentrato la mia riflessione.
Mi piaceva la linea di pensiero della differenza fra vedere e guardare con attenzione, inteso come concentrare lo sguardo su qualche cosa.
Ma anche mi domandavo come deve essere l'esperienza di non vedere. Certo come tutti mi è capitato di camminare di notte o di giocare a mosca cieca da bambina, ma il buio totale mi dicevo fra me e me è senz'altro un altro tipo di esperienza...
E a questo proposito è capitato l'episodio "strano": io lavoro in una bellissima scuola, nuova e moderna (è stata inaugurata nel 1998). Siccome sono un tipo ansioso, la mattina, lavorando sempre alla prima ora, arrivo con un largo anticipo. Qualche giorno fa', come tutte le mattine, entro piuttosto presto rispetto all'orario scolastico nel garage di scuola e mi trovo nel buio totale! (probabilmente si erano guastate le luci) Penso "poco male", ed accendo i fari dell'automobile... Solo che poi, per recarmi in aula, devo necessariamente scendere dalla macchina, ed è tutto buio... inizio a camminare più o meno orientandomi... andando a tentoni... ma è difficile, è buio pesto, ed è uno spazio in cui non so muovermi, perché io di solito non sto dentro il garage se non per lasciare -prendere l'automobile in tutta fretta... Mi muovo sola perché arrivando in anticipo gli altri non ci sono... dopo un po' che vago al buio inizio ad avere un po' di panico e mi vengono anche un po' di pensieri auto-ironici sul fatto che in questi giorni ragionavo proprio sul "vedere-non vedere" e sono stata accontentata: non vedo proprio!!! E non sono capace di controllare la situazione, vago nel garage non capisco come uscirne... è tutto buio!!! Quando l'angoscia sta per prendere il sopravvento, arriva un mio collega gentile che dall'esterno (non so come) ha capito la situazione e aprendo una porta di sicurezza fa irrompere la luce... Chiaramente rinfrancata ho ritrovato la mia sicurezza e mi sono avviata lungo le scale che permettono di uscire dal garage.
Perché parlo di coincidenza? Perché dentro di me, fino a quel momento, avevo pensato e capito alcune cose riguardo a questo brano del Vangelo, dall'esperienza appena narrata ne sono scaturite altre di cui cercherò brevemente di darvi conto nelle prossime righe.
Il mio ragionamento iniziale ruotava intorno al fatto che la maggioranza di noi ha il dono della vista.
Anche chi ci vede bene, non sa guardare, ovvero sia fermare lo sguardo su ciò che conta veramente.
Un primo esempio lo abbiamo trovato nell'atteggiamento, raccontato dal Vangelo odierno, dei discepoli rispetto a Bartimeo.
Ci viene, magari, da sorridere, davanti a questi discepoli che rimproverano il cieco per farlo tacere...
Ci sembra magari scontato che non dovrebbero comportarsi in questo modo, in fondo viene da pensare "ma chi si credono di essere? Come possono comportarsi così davanti a Bartimeo che è più debole di loro?"
Ma forse se ci ragionassimo un po'ci verrebbe meno da sorridere: siamo sicuri di non essere anche noi di quelli che stabiliscono per principio (nostro) cosa è gradito o non è gradito a Dio? Di quelli che si sentono detentori della Verità, senza pensare che la Verità è solo Cristo e noi siamo solo in cammino verso Lui?
Che non spetta a noi giudicare come gli altri si avvicinano a Dio?
Siamo in grado di vedere le necessità di coloro che sono più deboli di noi?
Questo mi porta a considerare un'altra dimensione del problema.
Spesso non vediamo oltre la nostra dimensione "spaziale".
I problemi e le necessità degli altri ci toccano e ci sconvolgono se li viviamo in prima persona, mentre restiamo indifferenti se riguardano una massa indefinita che è lontana da noi (conoscete il proverbio "lontano dagli occhi, lontano dal cuore?").
Ad esempio ricordiamo come un momento storicamente duro e difficile quello della emigrazione dalle nostre terre, emigrazione interna (da Sud al Nord) ed esterna (ad esempio verso l'America o la Svizzera; per i meno giovani, vi ricordate i tanti racconti dei familiari ed amici più anziani... o anche vi ricordate il magnifico film di Franco Brusati con Nino Manfredi "Pane e cioccolata"? Se non ve lo ricordate o non lo avete visto vi consiglio di vederlo...)
E' storia recente del nostro popolo, tuttavia ce ne siamo scordati: non siamo capaci di provare neanche quel sentimento minimo di pietà umana davanti alla tragedia dei barconi che affondano in mare, degli emigrati dal destino incerto, dei ragazzi che arrivano nelle nostre scuole e trovano altri ragazzi, i nostri, che non sono capaci di accoglierli perché i loro occhi vedono la diversità e non sanno accettarla, perché i loro educatori (genitori, docenti, catechisti...) non hanno trovato gli strumenti necessari per fare capire che davanti a Dio tutti gli essere umani hanno lo stesso valore, che il Sangue di Gesù ha comunque redento tutta l'umanità. Tuttavia, come cristiani, è facile proclamarci tali e contemporaneamente dire anche che tutto questo non ci riguarda, perché gli immigrati sono troppi... e per altri centomila discorsi razionalmente perfetti. O preferiamo ignorare. Non vedere.
Certo; è meglio non vedere perché se uno vede, guarda, agisce e non può fare finta di nulla... Ma è quello che ci ha detto di fare Gesù?
Il Signore dice chiaramente che saremo giudicati sull'accoglienza ai fratelli. Allora il Re dirà a coloro che sono alla sua destra: "Venite, o benedetti dal Padre mio, prendete possesso del Regno per voi preparato sin dalla fondazione del mondo. Poiché avevo fame e mi deste da mangiare; avevo sete e mi deste da bere; ero forestiero e mi ospitaste; ero ignudo e mi rivestiste; ero malato e mi visitaste; ero in carcere e veniste a trovarmi" (Mt 25,34-36).
Risponderemo della nostra capacità di vedere le necessità degli altri, anche quando non li conosciamo, cioè la capacità di dire con sollecitudine le stesse parole che dice il Cristo a Bartimeo: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». E' un atteggiamento mentale a cui il Signore ci invita. Uscire dalle nostre consuetudini e sicurezze e considerare con occhi nuovi un mondo più vasto delle "quattro vie" in cui ci muoviamo...
Sapere guardare, sapere vedere ed essere in grado poi di agire alla luce della Parola. Il Signore ci porta sempre più in là... Più in là nello spazio, ma anche nel tempo.
Il Vangelo ci insegna a superare un'ottica del "qui ed ora".
Siamo sì calati in questa storia, che è la nostra storia, ma se credenti siamo anche veramente partecipi di un'altra storia, quella che conta veramente perché è promessa di vita eterna.
Scrive San Paolo Colossesi: Se dunque siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio; pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra. Voi infatti siete morti e la vostra vita è ormai nascosta con Cristo in Dio! Quando si manifesterà Cristo, la vostra vita, allora anche voi sarete manifestati con lui nella gloria (Col 3,1-4).
Siamo Chiesa in cammino verso il Signore, siamo prodromo del Regno, su questa terra con gli occhi rivolti verso Dio. Di nuovo sappiamo guardare oltre.
Questo è quello che ho pensato prima dell'episodio del garage che ho narrato.
Se l'ho citato è perché mi ha permesso di capire una cosa ulteriore che è scontata magari, ma a cui io non avevo pensato in maniera compiuta.
L'esperienza del buio, della cecità è esperienza individuale, perché la viviamo coi nostri sensi che appartengono ad ognuno di noi, in maniera singola.
Possiamo sperare che qualcuno ci tolga il buio.
Tuttavia non siamo in grado di cavarcela da soli.
Dobbiamo affidarci a qualcuno.
Questo mi sembra a ben vedere la riflessione più significativa che posso proporre sul brano del Vangelo di oggi.
Il Signore ci può ridare la vista, l'unica condizione è il nostro affidarci a Lui.
Gesù indipendentemente da chi siamo e come siamo e da quello che pensano le altre persone su di noi, basandosi solo sulla nostra fede, ci starà accanto nella nostra necessità.
Cristo è veramente la nostra Luce.
Colui che dà un senso a tutto ciò che accettiamo di vedere in maniera non superficiale.
Il senso del nostro procedere in questa vita.
Il senso di ogni nostro respiro.
Il senso ultimo di tutto ciò che decidiamo di fare.
Il senso della nostra morte.
Se ne siamo convinti mi sembra allora che abbiamo una sola scelta obbligata: smettere di essere ciechi per agire, lasciare il "nostro mantello", come fa Bartimeo, e metterci in movimento in un cammino quotidiano di conversione quotidiano.
A Colui che era, che è e che viene, ogni onore e gloria per tutti i secoli dei secoli. Amen

SECONDO COMMENTO ALLE LETTURE
a cura di Daniele Salera

"Ricevi Cristo, ricevi la vista, ricevi la luce, per conoscere a un tempo Dio e l'uomo" (Clemente d'Alessandria, Esortazione ai pagani, 11).

Così Clemente ci aiuta nell'interpretare e rendere vivo il Vangelo del cieco di Gerico che in Marco chiude la sezione centrale e ci fa seguire Gesù "sulla strada" della passione, morte e resurrezione a Gerusalemme.
Bartimèo rappresenta in questo contesto la "creazione che soffre e geme per le doglie del parto" (Rm 8) e che nel suo lamento produce un urlo di dolore che sale a Dio perché l'ascolti. Il "conoscere a un tempo Dio e l'uomo" di Clemente alessandrino sta così a ricordarci che è proprio dell'uomo implorare la guarigione, la nascita dell'uomo nuovo divinizzato dallo Spirito e dunque ritenere il pellegrinaggio terreno necessario a tal fine, mentre è proprio di Dio ascoltare il gemito che gli proviene dalla più perfetta delle sue creature che necessita della grazia per portare a compimento il suo destino.
Bartimèo, cieco, vive sul limite della strada, non cammina con gli altri, non può farlo. La sua consapevolezza, il suo dolore, si traducono in un urlo che fa male, che dà fastidio a chi lo circonda ma che non per questo si azzittisce, si fa silente, il dolore e troppo e con esso tracima il desiderio di guarigione, mosso dalla fiducia in quel Gesù che passa e che solo può farlo nascere alla vita che vorrebbe.
Bartimèo, sa di vivere una vita che non può bastargli così com'è, urla spinto dal dolore ma anche dal desiderio di essere destinato ad altro. Egli si fa urlo dell'uomo di oggi che vuole vivere in pienezza la sua esistenza e sa di poter ricevere solo da Dio la grazia di ciò che non ha. Molti possono avergli detto "accontèntati, non ti è mai mancato il necessario, troverai sempre qualcuno che avrà pietà di te". Molte voci di dentro potevano dissuaderlo dal credere che quel Gesù avrebbe fatto qualcosa per lui; molti falsi testimoni potevano zittirlo in nome di una religione tranquilla, educata, da manuale, che non si scompone per chi urla ma è piuttosto occupata a celebrare il suo trionfo. Ma il suo urlo è stato più forte di quelle voci, ed è arrivato dritto al cuore di Gesù "il passante".
Già, Gesù è in questa storia Colui che passa, attraversa, si fa prossimo e facendo ciò toglie dai margini e fa blazare in piedi l'uomo che urla. Lo abilita non solo a camminare su quella strada che prima era solo il luogo su cui gli altri poggiavano i loro piedi e si mendicava la vita, ma anche lo ammette a seguirlo, a stargli dietro.
Nel pensare a Bartimèo, mi vengono in mente quelle situazioni di persone che urlano per poter vivere una vita piena e non si accontentano della lettura che gli altri, i benpensanti, fanno della loro esistenza. Non accettano neanche più di dar credito a quelle voci di dentro che li convincerebbero del fatto di non provarla la strada di Gesù perché è altra da loro, è per gli altri... ma anche penso a chi non aspetta più il "Passante" a chi ha cercato altre soluzioni per viverla la vita.
L'analogia può sembrare forte o impropria, ma in questi Bartimèo che non urlano più ci vedo le tante situazioni di confusione e di contrasto fra vero e falso, verità soggettiva o oggettiva, bene o male, di cui oggi i giornali sono pieni e che spesso costituiscono il "campo di battaglia" del contrasto fra Chiesa e società civile. Penso a chi vuole che la vita finisca prima che ciò avvenga non per responsabilità umana, penso a chi diffonde pratiche abortive come fossero caramelle e parla della pillola RU486 come un diritto inalienabile, penso a chi fa dell'orientamento omosessuale un argomento per tacciare d'ipocrisia e chiusura mentale la Chiesa.
Proprio a tal riguardo tanti sono i commenti diffusi in questi giorni sui quotidiani nazionali anche in riferimento alla bocciatura in Parlamento della proposta di legge sull'omofobia, la "legge Concia". Fra i tanti, Irene Tinagli, su La Stampa del 16 ottobre ha scritto un articolo dal titolo "L'omofobia è contro l'economia" nel quale così si esprime: «La questione omofobia non riguarda solo ambiti ideologici e religiosi. Riguarda aspetti economici e sociali di vitale importanza, perché se si vuole costruire un'economia moderna e dinamica occorre costruire una società altrettanto moderna e dinamica. Riconoscere, rispettare ed integrare le diversità è un elemento fondamentale dello sviluppo, oggi più che mai. Viviamo in un mondo in cui il sistema economico si regge sulle forme di creatività individuale. E inoltre, sull'innovazione, sulla capacità degli individui di esprimere il meglio di se stessi e dare un contributo originale alla società che li circonda. Ma questo può avvenire solo in contesti capaci di stimolare e accettare le varie forme di espressione e di libertà individuali. Contesti capaci di valutare e valorizzare le persone per il loro contributo di idee, energia e competenze, e non per il Dio che pregano prima di andare a dormire o la persona che scelgono di avere accanto nella vita».
In sintesi: possibilità di esprimere liberamente ciò che si è = poter essere riconosciuti come omosessuali con particolari diritti in quanto tali = produrre di più e meglio. Il passaggio ha una sua fredda conseguenzialità che scuote la coscienza. L'autrice dell'articolo cita una serie di statistiche di paesi anche europei con un alto livello di tolleranza e con una notevole crescita dell'innovazione tecnologica e d'altra parte addurrebbe alla "grettezza" dell'Italia - per quanto riguarda il riconoscimento dei diritti e l'accoglienza delle diversità - il suo essere "fanalino di coda" dell'avanzamento tecnologico e produttivo.
Sembra che non solo le voci di chi dissuade dall'urlare siano troppo forti, variegate ed intellettualmente ineccepibili, ma anche che i Bartimèo di oggi non aspettino più il "Passante" che cambia la vita ed immette sulla strada. Alla presa di coscienza della propria omosessualità spesso si accompagna lo stesso dolore che portò Bartiméo all'urlo fiducioso che lo ha sanato. Ora le urla non sono quelle di chi chiede una vita che si realizzi nella "somiglianza" al Dio Incarnato. Le urla sono di chi rischia di far coincidere la cecità con il camminare sulla strada, non si cerca la luce, non si aspetta Cristo "per conoscere a un tempo Dio e l'uomo".