Omelia (25-10-2009) |
mons. Antonio Riboldi |
La missione è contagiare il mondo di speranza Desidero chiudere questo mese di ottobre, dedicato non solo alla 'catena d'oro che porta al Cielo', il S. Rosario, ma come richiamo per tutti, anche se in diversi modi, all'impegno della missione. Quando parliamo di 'missioné, normalmente il nostro pensiero corre ai 'missionari', ossia a sacerdoti, consacrate e laici, che portano la buona novella fino ai confini del mondo. E lo stanno facendo con un coraggio, in condizioni povere e difficili, che solo lo Spirito Santo può donare. Leggo varie riviste missionarie, che raccontano la vita di missionari nelle varie parti del mondo. Amo partecipare, almeno con quella preziosa comunione, che dovrebbe essere il legame tra noi che siamo di Cristo, alle speranze, alle fatiche, fino all'eroismo di tanti di loro. E operano con una gioia a noi sconosciuta. Con alcuni di loro sono in continuo contatto e così, non solo mi trasmettono il bene che fanno, ma mi rendono partecipe a volte delle loro necessità. Anche se è poco quello che posso realizzare con loro, è sempre 'sentirsi là' dove i nostri fratelli evangelizzano; in altre parole portano Cristo a chi non lo conosce, facendo entrare quelle genti nel grande numero dei figli di Dio e nostri fratelli nella fede - una fede spesso da loro vissuta con purezza e radicalità, con lo spirito semplice dei 'bambini secondo il Regno', che noi dobbiamo riconquistare. Ma la missione, di cui parla Gesù e che oggi ci ricorda la Chiesa, riguarda solo i missionari, i tanti sacerdoti che con un bel titolo si definiscono ‘donum ad gentes' o riguarda tutta la Chiesa e, quindi, tutti i fedeli, anche se in modi diversi? Grandi missionari sono i vescovi, i sacerdoti, i consacrati e le consacrate, ma in particolar modo sono chiamati alla missione i papà e le mamme, in famiglia, ed ogni fedele, ovunque operi. C'è forse un modo migliore di donare Gesù ad un fratello di quello di fargli conoscere la Buona Novella del Vangelo? Il S. Padre, nel suo messaggio missionario, ribadisce ancora una volta che "la Chiesa non agisce per estendere il suo potere o affermare il suo dominio, ma per portare a tutti Cristo, salvezza del mondo. Noi non chiediamo altro che di metterci al servizio dell'umanità, specialmente di quella più sofferente ed emarginata, perché crediamo che l'impegno di annunziare il Vangelo agli uomini del nostro tempo è un servizio reso non solo alla comunità cristiana, ma anche a tutta l'umanità...Già oggi, nelle contraddizioni e nelle sofferenze del mondo contemporaneo, si accendono le speranze di una vita nuova, perciò la missione della Chiesa è quella di contagiare di speranza tutti i popoli. Per questo Cristo chiama, santifica ed invia i suoi discepoli ad annunciare il Regno di Dio perché tutti i popoli diventino popolo di Dio". Il Sommo Pontefice e i Vescovi hanno spesso parlato - riferendosi alla nostra cara Italia che, con forse troppa facilità si dichiara cristiana, cattolica - di quella che noi definiamo 'reimplantatio Evangelii', in altre parole è come dire: così come annunziamo il Vangelo, non va, non basta. La missionarietà della Chiesa - e dicendo Chiesa intendo riferirmi a tutti i battezzati che, nell'atto del Battesimo, da Gesù hanno ricevuto lo stesso mandato di annunciare la Buona Novella - o non va o non basta. O forse la missionarietà delle nostre comunità non è bene impostata o non sufficientemente esercitata o non ben vissuta. Forse dobbiamo davvero ridiventare tutti, dai sacerdoti alle famiglie, dai religiosi ai giovani, più missionari: risentire urgente il mandato di Gesù rivolto a tutti indistintamente: 'Andate e dite a tutte le genti la buona Novella del Vangelo'. grave problema di tutta la Chiesa, un problema che, se evaso, rischia di svuotare le nostre chiese, ma, soprattutto, tenendo presente che la fede è 'la pietra su cui si fonda ogni uomo e la Chiesa', la gravità diventa estrema per le nostre comunità, le nostre famiglie e per ciascuno di noi. Se poi pensiamo che c'è chi, per far entrare più gente possibile nella luce del Vangelo, rischia la vita ogni giorno nelle missioni, il nostro silenzio ci deve fare riflettere e tanto. Fa male dover ammettere che Cristo, per molti anche fra noi, non è una Buona Novella, ma una 'notizia sconosciutà, a volte censurata, a volte irrisa, come notizia superata, di nessun interesse. Eppure l'uomo ha bisogno urgentemente della 'paternità' di Dio. Dio stesso, che ci ha creati, ha sentito talmente questa nostra necessità, che ha mandato tra noi, come fosse uno di noi, Suo Figlio, con la missione di farci conoscere l'intimo del Cuore del Padre, perché ridiventassimo partecipi di questo Suo ineffabile Amore. Amore che è stata la 'spintà per il Figlio, che si è manifestato con la Parola, necessaria via per la conoscenza del Padre, affidandola poi, come primo compito missionario, a tutta la Chiesa, di tutti i tempi. E non c'è dono e dovere più grande per ciascuno di noi di conoscere e vivere la vita di Dio, che si manifesta proprio con la Parola: l'uomo, conoscendo Dio, finalmente può conoscere se stesso. Così come non c'è dono più grande di far conoscere il Vangelo, Cristo: questa è la missionarietà a cui siamo chiamati tutti noi cristiani, ricordando le parole del S. Padre: 'L'impegno di annunziare il Vangelo...perché nelle contraddizioni e nelle sofferenze del mondo contemporaneo si accendano le speranze di una vita nuova'. "VA', LA TUA FEDE TI HA SALVATA". Come a confermare quanto scritto riguardo la necessità della missionarietà, il Vangelo di oggi ci viene incontro mostrandoci un esempio di fede semplice, ma totale, che commuove ed è una vera lezione di vita, del come ci si deve affidare con completa fiducia al Cuore Misericordioso di Dio. Ce lo racconta l'evangelista Marco: "Mentre Gesù partiva da Gerico insieme ai discepoli e a molta folla, il figlio di Timèo, Bartimèo, cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. Costui, al sentire che c'era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: 'Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me'. Molti lo sgridavano per farlo tacere, ma egli gridava più forte: 'Figlio di Davide, abbi pietà di mer. Allora, Gesù si fermò e disse: 'Chiamatelo'. E chiamarono il cieco dicendogli: 'Coraggio! Alzati, ti chiama'. Egli, gettato via il mantello, balzò in piedi e venne da Gesù. Allora Gesù gli disse: 'Che vuoi che io ti faccia?'. E il cieco a lui: Rabbunì, che io riabbia la vista. E Gesù gli disse: 'Va', la tua fede ti ha salvato'. E subito riacquistò la vista e prese a seguirlo per strada" (Mc 10, 46-52). Un racconto che commuove e di grande insegnamento: un cieco di fronte alla Luce, che è Gesù. Un cieco che non mette limiti alla sua fede, certo di trovare in Gesù ascolto e miracolo. Non è uno che pretenda, come facciamo noi tante volte, semplicemente chiede che Dio abbia compassione e lo riporti alla pienezza della salute e della vita. Sappiamo tutti come sia difficile avere una fede così semplice e profonda, come Bartimeo; una fede che equivale al completo abbandono 'come quella di un bimbo in braccio a sua madre', afferma il salmista. Dio sa molto bene quale sia il nostro vere bene. È un papà dal cuore immenso. Sa quello di cui abbiamo bisogno. Attende solo che ci rendiamo conto noi stessi delle nostre intime necessità e poi, come Batimeo, apriamo a Lui il nostro cuore. Avere fede, vivere di fede è davvero capire la semplicità dell'abbandono di Bartimeo. Fermiamo il nostro pensiero e chiediamoci: Che cos'è la fede? Ed io ho fede? Ci aiuta in questa pausa di riflessione Paolo VI: "Bisogna ricordare che la parola 'fede' è intesa a volte nel primo significato di conoscenza 'naturale' di Dio, ossia di quella conoscenza che possiamo avere sulla divinità con le forze ordinarie del nostro pensiero. Ma se parliamo di 'fede', come vera conoscenza soprannaturale di Dio, derivata dalla Sua rivelazione, allora le forze ordinarie del nostro pensiero, occorrono e servono sì, ma non bastano; devono essere corrette da uno speciale sussidio di Dio stesso, che chiamo grazia: allora fede è un dono che Dio stesso concede; è quella virtù teologale che, pure nel mistero che sempre circonda Dio, ci dà la certezza e la gioia di tante verità a Lui relative". (giugno 1968) Tutti noi, nella vita, che tante volte si presenta come un difficile cammino su una strada che non conosciamo, siamo messi alla prova se abbiamo o no la fede-fiducia di Bartimeo. Ci sono per tutti momenti o fatti in cui pare che Dio si nasconda fino a farci dubitare della sua esistenza. Sono quei momenti che i santi, tutti, a cominciare da S. Teresina del Bambino Gesù, chiamano 'la notte dell'anima'. Non è che il Padre non sia presente, ma semplicemente ci mette alla prova. Ecco perché Bartimeo, cieco, si presenta oggi a noi come esempio di fede assoluta, cieca, e commuove Gesù. Non dobbiamo avere paura della cecità di certi momenti, ma conservare la serenità interiore, sicuri che Dio ci è vicino come non mai, attendendo la nostra domanda. Leggiamolo spesso questo racconto di Bartimeo: ci aiuterà ad andare oltre le difficoltà. Con S. Agostino preghiamo: "Signore Gesù, conoscermi conoscerTi, non desidero null'altro da Te. Odiarmi ed amarTi: agire solo per amor tuo, abbassarmi per farTi grande, non avere altri che Te nella mente. Morire a me stesso per vivere di Te. Tutto ricevere da Te. Rinunciare a me stesso per seguirTi, desiderare di accompagnarTi sempre. Fuggire da me stesso, rifugiarmi in Te per essere da Te difeso. Temere me e temerTi per essere fra i tuoi eletti. Diffidare di me stesso, confidare solo in Te, voler obbedire a causa tua: non attaccarmi a null'altro che a Te, essere povero per Te. Guardami e Ti amerò, chiamami perché Ti veda e goda di Te per sempre". |