Omelia (01-11-2009) |
Il pane della domenica |
Amare perché amati Questo è il primo comandamento, il secondo poi gli è simile Ciò che conta è amare: lo sappiamo benissimo e l'abbiamo ripetuto chissà quante volte, magari con qualche citazione di rinforzo, del tipo: "Dio è Amore", come ha scritto l'evangelista Giovanni, o come ha osato affermare s. Agostino: "Ama, e fa' ciò che vuoi". C'è poi anche s. Giovanni della Croce a ricordarci: "Alla fine della vita saremo giudicati sull'amore". Ma che cosa significa amore? Osserva papa Benedetto nella sua prima enciclica, Deus caritas est: "Il termine ‘amore' è oggi diventato una delle parole più usate ed anche abusate, alle quali annettiamo accezioni del tutto differenti" (n. 2). Senza attardarci in complicate analisi filologiche o in sottili speculazioni filosofiche, è forse opportuno andare al fondamento di quell'amore che la parola del Signore ci comanda di nutrire verso Dio e verso il prossimo: senza quel fondamento, non solo risulterebbe incomprensibile il comandamento evangelico, ma si rivelerebbe anche fatalmente impraticabile. Afferma chiaramente s. Giovanni: "Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l'amore è da Dio" (1Gv 4,1). Su questo "perché" sembra utile ritornare. 1. Tutte le religioni dicono che l'uomo deve amare Dio e che questo amore si deve riflettere nell'amore del prossimo. La specificità della fede cristiana non sta tanto nell'allargamento del concetto di prossimo, una dilatazione che pure è vera fino al punto da superare ogni barriera razziale, religiosa o culturale. Ciò che è tipico del cristianesimo è quanto si legge nelle sante Scritture, che fanno discendere il nostro amore a Dio e al prossimo da un evento assoluto e incondizionato, precedente ogni nostra iniziativa e determinante ogni nostra risposta: è l'evento libero e gratuito dell'amore di Dio verso di noi. Sempre nella 1ª lettera di s. Giovanni leggiamo: "In questo sta l'amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati". Da qui la conseguenza: "se Dio ci ha amato, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri" (1Gv 4,9-10). Secondo il racconto dell'evangelista Marco, Gesù inizia la sua risposta alla domanda dello scriba citando lo Shemà Israel, una sorta di professione di fede con cui ogni israelita apriva e chiudeva la sua giornata e che cominciava con quelle parole, tratte dalla santa Legge: "Ascolta, Israele. Il Signore Dio nostro è l'unico Signore" (Dt 6,4) (1ª lettura). Con quella professione Israele proclamava la sua fede nell'articolo di base di tutto il suo credo: esiste un solo Signore e quel Signore è "nostro", perché egli ci ha amati, ci ama e ci amerà nei secoli dei secoli. È da questa certezza che Gesù tira la conseguenza del comandamento dell'amore: "Amerai dunque il Signore Dio tuo e il prossimo tuo". Con quel "dunque" il Signore vuole farci capire come il nostro amore verso Dio e verso il prossimo sia legato logicamente e teologicamente all'amore di Dio per ognuno di noi e per il nostro prossimo. È il legame che vincola necessariamente la nostra libera risposta alla iniziativa benevola di Dio verso di noi. La saldatura tra la fede nell'amore di Dio per noi e il comandamento dell'amore nostro per Dio la si trova fin dall'atto di nascita del popolo di Israele: uscito miracolosamente dall'Egitto, Israele è solo un'accozzaglia di nomadi: non ha ancora una terra da abitare, potrebbe essere inghiottito dal deserto. Nell'evento capitale di tutto l'Antico Testamento, qual è la stipulazione dell'alleanza al Sinai, Dio apre la lista dei dieci comandamenti con quella dichiarazione: "Io sono il Signore Dio tuo, che ti ho fatto uscire dal paese d'Egitto, dalla condizione di schiavitù". È per il fatto che Dio ha liberato Israele, che Israele deve osservare i comandamenti di Dio. Più semplicemente: è per il fatto che Dio ha amato Israele, che Israele deve amare Dio. Con l'alleanza Dio e il popolo contraggono un legame sponsale che si riassume nella formula del consenso coniugale: "Io sono il tuo Dio - dice il Signore a Israele - tu sei il mio popolo". Come si vede, prima di dire al popolo: "Tu sei mio", Dio dice: "Io sono tuo". 2. Con Gesù di Nazaret questa rivelazione dell'amore raggiunge il suo vertice insuperabile: secondo il vangelo non è l'uomo che si è sacrificato per Dio, ma è il Figlio di Dio che ha dato la vita per l'uomo. Il movimento è capovolto. Non sono i discepoli che hanno lavato i piedi al Signore: questo, tutto sommato, sarebbe abbastanza ovvio. È il Signore che ha lavato i piedi ai discepoli: questo è davvero sorprendente. Ma non basta, come ci fa capire Paolo: Dio ci ha amato quando noi gli eravamo ancora ostili. "Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi" (Rm 5,8). C'è un altro elemento che merita di essere tenuto presente. La fede nell'amore di Dio per noi non solo fonda il comandamento del nostro amore per Dio, ma anche quello dell'amore per i fratelli. Se noi abbiamo sperimentato l'amore di Dio, se crediamo che il Figlio di Dio ha dato la vita per noi - conclude s. Giovanni, l'apostolo dell'amore - "quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli" (1Gv 3,16). E ancora: "Chi non ama il fratello che vede, non può amare Dio che non vede" (ivi, 4,20). La fede nell'amore che Dio ha per noi e che ha dimostrato con la prova inconfutabile della croce, fonda l'amore per il prossimo non solo nel senso che lo rende comprensibile, ma anche nel senso che lo fa diventare concretamente possibile. È quanto afferma Gesù dopo la lavanda dei piedi: "Se io ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Come io ho amato voi, anche voi dovete amarvi gli uni gli altri". L'indicativo della fede fonda l'imperativo dell'amore. Questo è un dato che viene abbondantemente suffragato dalla psicologia moderna, ma anche dall'esperienza che direttamente o indirettamente facciamo. Un bambino che non ha ricevuto affetto, farà molta fatica da grande ad esprimere affetto nei confronti degli altri. Invece colui che si è sentito e si sente amato, normalmente è meglio predisposto ad amare; colui che ha sperimentato comprensione e misericordia, troverà meno difficoltà ad essere comprensivo e tollerante. Del resto, come può amare chi non conosce, per esperienza diretta e concreta, che cosa sia l'amore? E questa è appunto la fede: non una sensazione o una vaga impressione, ma la certezza irrefragabile che ci fa credere nell'amore e ci fa gridare con s. Giovanni: "Noi abbiamo riconosciuto e creduto all'amore che Dio ha per noi" (1Gv 4,16). E s. Paolo rincara la dose, quando scrive: "L'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato" (Rm 5,5). Da queste riflessioni sgorga una preghiera che, ispirandoci alle parole luminose della liturgia, possiamo formulare così: "O Dio nostro Padre, che nell'amore verso di te e verso il prossimo hai posto il fondamento di tutta la legge, infondi in noi la dolcezza del tuo amore, perché cercando te in ogni cosa e sopra ogni cosa, e amando il tuo Figlio Gesù in ogni nostro fratello e in ogni nostra sorella, gustiamo la gioia della perfetta carità. Amen". Commento di mons. Francesco Lambiasi tratto da "Il pane della Domenica. Meditazioni sui vangeli festivi" Ave, Roma 2008 |