Omelia (25-10-2009) |
padre Antonio Rungi |
La cecità delle nostre idee, la luce della fede in Cristo Celebriamo oggi la XXX Domenica del tempo ordinario e la parola di Dio ci mette di fronte alla guarigione del cieco, che come tematica richiama alla nostra attenzione la cecità delle nostre idee e la luce che viene dalla fede in Cristo. L'incontro con Gesù da parte di Timeo lo guarisce nel corpo riacquistando la vista, ma soprattutto nell'anima perché scatta in lui il dono meraviglioso della fede. Una fede espressa con l'implorazione, con l'insistenza, con il grido forte del disperato, della richiesta della misericordia e dell'aiuto divino. La coscienza che la malattia fisica fosse conseguenza del peccato è evidente nella Sacra Scrittura. Ma, come sappiamo, non c'è uno stretto rapporto tra malattia del corpo e lo stato di peccato. Basta considerare che molte sante persone, che conosciamo o che sono stati proposti come modelli di vita e dichiarati santi, nella loro vita non vivevano in peccato eppure sono stati toccati da tante infermità che hanno accettato per amore di Dio e fissando lo sguardo nel Crocifisso e abbracciandosi alla croce; altri invece che vivono in una evidente e pubblica condizione di peccato, sono ottimamente in salute. Qui entriamo in quel mistero dell'incomprensione della sofferenza umana che privilegia alcuni e lascia liberi altri. Timeo, il cieco del vangelo avverte su di sé il peso del peccato e chiede la conversione del cuore e la guarigione dell'anima. Egli ottiene l'uno e l'altro dono, tanto che una volta guarito non va via, ma si mette alla sua sequela. Non fa come tanti cristiani o credenti che ottenuti la grazia e l'aiuto di Dio si dimenticano con facilità del dono ricevuto, ritornando ad uno stile di vita di indifferenza o apatia interiore. Quest'uomo guarito si mette alla sequela di Cristo e il dono ricevuto lo trasforma in missionario e discepolo. Com'è difficile lasciare dietro di sè le esperienze negative per iniziare un nuovo cammino. Il cieco è esempio che è possibile iniziare una vita diversa dal passato non più fatta di cecità sulla propria vita e su quella degli altri, ma fatta di apertura alla fede, alla verità, alla luce. Non dobbiamo diventare giudici severi degli altri prendendo il posto di Dio nel valutare la vita, la condizione e l'interiorità dei nostri fratelli, noi dobbiamo accogliere solo il grido di aiuto quando ci viene richiesto e se possibile rispondere a questo grido non con l'orgoglio di chi sa o pensa di sapere di più o di essere nel giusto, ma di chi si mette alla ricerca e alla sequela come il cieco guarito. Solo Cristo è la nostra vera guida e luce. Tutti gli altri possono rifletterlo più o meno in modo adeguato, ma nessuno si deve sostituire all'azione sanante e santificatrice della grazia del perdono e della conversione che viene dal Signore. Bisogna prende coscienza anche tra i credenti o tra quanti hanno la responsabilità pastorale che l'unico Salvatore è Cristo e nessuno può negare alle persone che chiedono di incontrarlo nella confessione, nella comunione mettendo paletti ed ostacoli di ogni genere, facendo pesare sugli altri la responsabilità morali e avendo poca attenzione ad un cuore in cerca di perdono e avvicinamento al Signore. Molti sono i ciechi spirituali dei nostri tempi che hanno bisogno di incontrare il Signore. Aiutiamoli ad avvicinarsi a Lui e non ostacoliamoli, come la gente che riprova il cieco mentre gli chiede di Gesù alzando la voce. Lo stesso bisogno di Dio viene espresso nel libro del profeta Geremìa, testo della prima lettura di oggi, in cui il popolo pone la sua fiducia e speranza nel Signore. Quanto è importante leggere oggi queste parole del profeta "Dio è Padre" non giudice solo. Egli ci conforta e ci consola. La sofferenza non può essere l'unica compagna della nostra vita. Perché partiamo spesso con essa e poi arrivano la gioia e la consolazione, il momento della tranquillità e della serenità interiore. Gesù è davvero l'eterno, sommo sacerdote che guarisce le nostre ferite del cuore e del corpo. In lui possiamo e dobbiamo riporre ogni legittima aspettativa di salvezza terrena ed eterna. Nonostante le nostre fragilità egli ci aiuta in questo itinerario verso la salvezza, meta ultima del nostro cammino nel tempo. Il suo sacrificio sulla Croce per noi è compassione, è comprensione della nostra debolezza, è purificazione dei nostri peccati, è soprattutto riconciliazione e misericordia. A questo sommo ed eterno sacerdote devono ispirarsi tutti i sacerdoti che, purtroppo, non sempre sanno compatire e capire chi si trova nella sofferenza, nel dolore, nel peccato, nella fragilità, perché molti sono nell'ignoranza e nell'errore e devono essere guidati alla comprensione del vero ed eterno Dio, rivelato in Cristo. Non si tratta di mettersi sul piedistallo della sapienza umana e acquisita sui libri, ma dal piedistallo della Croce, come Cristo, perché nel sacrificio redentore del Cristo noi comprendiamo il vero senso del suo essere sacerdote e del nostro sacerdozio comune e ministeriale. Nell'amore e nell'oblazione della sua vita, Gesù ci dà lo strumento essenziale ed indispensabile per vivere ed esercitare il nostro sacerdozio, soprattutto se è quella speciale vocazione al servizio nella Chiesa e per la Chiesa, a modo di Cristo Capo. Sia questa la nostra umile preghiera di questa giornata di festa che apre il nostro cuore alla speranza e alla gioia nel Signore. Quella gioia che solo un volto illuminato dalla luce di Cristo può assaporare anche nei momenti più bui della sua vita: "O Dio, luce ai ciechi e gioia ai tribolati, che nel tuo Figlio unigenito ci hai dato il sacerdote giusto e compassionevole verso coloro che gemono nell'oppressione e nel pianto, ascolta il grido della nostra preghiera: fa' che tutti gli uomini riconoscano in lui la tenerezza del tuo amore di Padre e si mettano in cammino verso di te". Amen. |