Omelia (08-11-2009) |
Il pane della domenica |
Due spiccioli, cioè tutto Questa vedova, nella sua povertà, ha dato tutto quello che aveva Immaginiamo di essere noi al posto dell'evangelista Marco: supponiamo di essere arrivati a stendere il racconto della storia di Gesù al punto in cui si conclude il suo insegnamento pubblico a Gerusalemme, prima del processo. Abbiamo a disposizione un materiale abbondante - tramandato dalla tradizione - fatto di episodi, di discorsi, di parabole e di detti del Signore, e non potendo riportare tutto, ci tocca fare una scelta: quale episodio privilegiare? Questa ipotesi potrà sembrare fantasiosa e stravagante, ma forse ci può servire a decodificare il messaggio che s. Marco ci vuole trasmettere con la scelta che lui ha effettivamente operato. A differenza degli altri evangelisti, per chiudere la fase dell'attività pubblica di Gesù, prima della sua passione, Marco ci presenta - tra i tanti racconti possibili - un brano che è una sorta di dittico con due pannelli: uno, negativo, in cui ci descrive come non devono essere i seguaci di Cristo; l'altro, positivo, in cui ci viene proposto un ideale esemplar e di cristiano. 1. Ecco il primo pannello: i discepoli non devono somigliare agli scribi, gli impettiti maestri della Legge. A loro Gesù addebita tre gravi difetti. Il primo è la vanità: "amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze, avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti". In altre parole: si pavoneggiano nello sfoggio dell'ampio mantello dei rabbi, il tallit, per essere riveriti nelle piazze e accaparrarsi i posti più ambiti nelle assemblee liturgiche e nei banchetti. La seconda accusa, che muove loro Gesù, è l'avidità: "divorano le case delle vedove", sfruttandone l'ospitalità e la generosità. È da tenere presente che una vedova in Israele apparteneva alla categoria più povera e indifesa, insieme allo straniero e all'orfano. La voracità degli scribi è quindi ancora più grave agli occhi di Dio, in quanto essi si fanno schermo della legge per tutelare i loro interessi e gestire i loro loschi affari. La terza accusa è l'ipocrisia: gli scribi "ostentano lunghe preghiere", esibiscono una grande devozione prolungando i tempi di preghiera alla vista di tutti. Secondo Gesù, questi maestri tanto riconosciuti e riveriti, hanno introdotto una duplice menzogna nella loro vita: quella di separare la preghiera dalla giustizia, poiché non si può rendere culto a Dio e arrecare danno ai poveri. L'altra menzogna, ancora più spudorata e intollerabile, consiste nell'illudersi di amare Dio e il prossimo, mentre invece non si ama che il proprio miserabile io: la propria vanagloria, il proprio meschino tornaconto. Sbaglieremmo se pensassimo che con queste denunce sferzanti e impietose Gesù faccia di ogni erba un fascio. Il Maestro di Nazaret sa bene che tra gli scribi ci sono uomini sinceramente religiosi, e uno lo abbiamo incontrato anche noi domenica scorsa, nel vangelo sul duplice comandamento dell'amore: Gesù ne ha apprezzato la saggezza e lo ha salutato con parole molto positive: "Non sei lontano dal Regno di Dio". A quel tempo c'erano anche maestri che condividevano il pensiero di Gesù a proposito del retto comportamento da tenere verso Dio e verso i poveri. Uno scriba raccontava ai suoi discepoli che un sacerdote respinse l'offerta di un pugno di farina di una povera vedova, e di notte ricevette in sogno un avvertimento: non disprezzarla, è come se abbia offerto la propria vita. 2. E in questa linea si colloca il secondo pannello, propostoci dall'evangelista Marco. In base agli elementi da lui forniti, si può ricostruire la scena. Gesù si trova nel tempio di Gerusalemme, precisamente in una sala o corridoio del cortile riservato alle donne, dove sono collocate tredici grandi ceste per raccogliere le offerte. Probabilmente gli offerenti dovevano dichiarare al sacerdote di turno l'entità e lo scopo dell'offerta. E così il gesto diventava pubblico e si prestava alla vanità. Ci sono molti ricchi che fanno laute oblazioni, di cui il sacerdote ripete ad alta voce l'ammontare, suscitando l'ammirazione dei presenti e degli stessi discepoli di Gesù. C'è anche una povera donna, vedova, che ha consegnato in offerta appena due spiccioli, cioè due monetine tra le più piccole in circolazione. Solo Gesù la scorge e richiama l'attenzione dei discepoli, rimasti imbambolati a godersi lo spettacolo di quell'indegna, oscena gara al rialzo tra i molti ricchi presenti. Il contrasto è netto: gli scribi amano essere sempre i primi nei banchetti, nelle sinagoghe, nelle piazze: mettono i loro soldoni nelle casse del tempio, ma solo per comprarsi il favore di Dio e la gloria e la fama degli uomini. La vedova invece si mette all'ultimo posto: riconosce che solo al Signore spetta il primato; lei si sente da lui totalmente amata e lo riama totalmente. Delle due monetine avrebbe potuto tenersene una, ma a lei non piace fare a metà con Dio: si priva di tutto, a costo di fare la fame e di non avere neanche il pane per quel giorno. Il Maestro scuote i discepoli con la formula più solenne e autorevole del suo magistero, una formula abitualmente riservata per introdurre gli insegnamenti più importanti: "In verità vi dico". È come se volesse trapiantare i propri occhi nei discepoli: essi erano rimasti a bocca aperta a vedere "quanto" offrivano i ricchi; Gesù invece - ci ha detto testualmente l'evangelista - "osservava come la folla gettava monete nel tesoro". Il "come", per il Maestro, pesa più del "quanto". Il valore dell'offerta modestissima della vedova - sfuggita alla sguardo superficiale dei discepoli - consiste secondo il Maestro nel fatto che la poveretta ha in realtà dato tutto: "tutto ciò che aveva per vivere", letteralmente tutta la (sua) vita. Inoltre quella donna ha fatto la sua offerta in tutta umiltà, senza alcuna ostentazione, senza la più pallida illusione di un impossibile utile personale. Il Maestro ha ragione: il metro di giudizio non è la quantità, ma la totalità; non è questione di tasca, ma di cuore. Amare Dio "con tutto il cuore" significa dare tutto, senza attenderci nulla in cambio, senza illuderci di pareggiare il nostro conto con Dio o, peggio, di essere in credito con lui. Non abbiamo dato nulla finché non avremo dato tutto. Ma per questo occorre umiltà vera e un grande, grandissimo amore. Noi spesso diciamo che amare significa donare, ed è giusto, ma di fatto che cosa doniamo? Non è forse vero che quando diamo del denaro, in realtà noi diamo del superfluo? Quando diamo del tempo, è sempre un po' di quello che ci avanza? E quando diamo qualche nostro talento, è dopo averlo utilizzato per i nostri scopi personali o di famiglia o di gruppo? Chiediamo oggi al Signore di ammetterci alla scuola di questa povera vedova, che egli, prima di andarsene dalla scena di questo mondo, fa salire in cattedra e ci lascia come maestra di vangelo vivo. E per la preghiera di Maria, la donna povera che ha dato "tutta la sua vita" a Dio per noi, chiediamo il dono di un cuore povero, ma ricco di generosità: una generosità grata, lieta, gratuita. Commento di mons. Francesco Lambiasi tratto da "Il pane della Domenica. Meditazioni sui vangeli festivi" Ave, Roma 2008 |