Omelia (01-11-2009)
Marco Pedron
Percorsi di felicità

Oggi la chiesa celebra la festa di Tutti i Santi. Ci sono i Santi che tutti ricordiamo: Padre Pio, Madre Teresa, Papa Giovanni XXIII, Massimiliano Kolbe, Francesco d'Assisi, Antonio da Padova, ecc. Ma c'è anche una schiera sconosciuta di uomini e donne che hanno vissuto in maniera "santa" e che hanno rivestito una grande importanza per ciascuno di noi. Uomini e donne che magari non saranno in nessun calendario liturgico se non nel calendario del nostro cuore.
La festa di oggi ti dice: "Ringrazia i tuoi santi; ringrazia i tuoi angeli. Ringrazia tutte quelle persone che si sono avvicinate nel tuo cammino, che si sono affiancate con amore e ti hanno aiutato, ti hanno sostenuto, ti hanno dato una mano, ti hanno salvato la vita, ti hanno aperto visioni e finestre di vita diverse".
Quando oggi siete tornati a casa, vi prendete un attimo di tempo, foglio e carta, scrivete i numeri da 1 a 31, i giorni di un mese, e per ogni giorno scrivete il nome di una persona importante per voi, una di quelle il cui aiuto, presenza, vicinanza, ci hanno fatto bene o sono state fondamentali, porti di salvezza. Poi ve lo mettete come un calendario vicino al comodino del letto e ogni mattina leggete il vostro santo. Vi sentirete in compagnia e sostenuti.

Santo, kadosh in ebraico, vuol dire "altro". Dio è Santo perché è l'Altro, Colui che non puoi mai prendere, controllare, conoscere. Dio è troppo grande.
E' attribuito a Sant'Agostino questo fatto: Agostino stava passeggiando lungo il mare e rifletteva sul mistero di Dio, mistero immenso e inesauribile. Ad un certo punto incontra un ragazzino che lungo la riva del mare aveva fatto una piccola buca. Poi con una piccola ciottola andava in acqua e metteva l'acqua del mare nella sua piccola buca; questo per molte volte. Il santo gli chiede: "Ma cosa stai facendo, bambino mio?". E il bambino: "Sto mettendo l'acqua del mare tutta dentro la buca!". "Ma non si può - rispose il santo - il mare è troppo grande per questa piccola buca". E il bambino, dice la leggenda, rispose: "E tu come pensi di mettere e di comprendere Dio, che è immenso, nella tua piccola mente?".
Dio è troppo grande, Dio ci sfugge, ci scappa. Quando le persone dicono: "Io, tutto sommato, conosco Dio", dicono una grande falsità ed eresia. Dio è oltre, più in là. Ogni valico che raggiungi ti apre nuove e sempre più vaste strade e orizzonti.
Chi intraprende la strada della conoscenza di Dio, della Vita, del Mistero dell'essere, farà delle scoperte incredibili ma quante volte dovrà cambiare visione e quanto lontano andrà dai suoi iniziali punti di partenza! Questo, perché Lui è Troppo Grande!
Per questo si dice che Dio è un mistero: non lo puoi mai catturare, afferrare o possedere. Dio si può amare, cantare, seguire, pregare, invocare, ma non comprendere. Comprendere, nel senso letterale della parola, vuol dire abbracciare, afferrare, prendere-con la mia mente. Sì, abbiamo bisogno di capire chi è Dio e la mente e la riflessione ci servono, ma Dio non si può comprendere nel senso di possederlo, di saperlo del tutto. Per questo le persone razionali, fredde, mentali, fanno fatica ad accedere al mondo divino: perché Lui è l'incomprensibile, Colui che sfugge sempre.

Nella nostra testa santo uguale a perfetto. Ma la perfezione (per-ficere, fare per un motivo, per uno scopo) non è la santità. La perfezione è il tentativo di uscire dall'umanità. Siamo imperfetti per origine, quindi tentare di essere perfetti è impossibile a priori. Essere perfetti è il tentativo di essere superiori, più in alto degli altri. Ma se fossimo perfetti, che ce ne faremo degli altri? Basteremo a noi stessi!
La perfezione nasce dal bisogno insoddisfatto di quando eravamo piccoli. Quando un bambino non riesce ad essere amato e accolto per quello che è, che fa? Sviluppa quello che coglie può essere accolto e accettato, sviluppa quello che viene premiato. Vede che se fa "il bravo bambino", che se si prende cura dei fratellini papà e mamma sono contenti di lui? Allora lui lo fa e diventa la baby-sitter dei suoi fratelli (il problema è che facendo l'adulto non fa il bambino e si crea un buco dentro di sé, come costruire un palazzo senza il primo piano! E' solo questione di tempo: quel palazzo non può reggere).
Vede che se non piange, che se non canta, che se non urla, che se non da fastidio ai genitori, questi sono contenti di lui? Allora non canta, non urla e non piange più. Si tiene dentro tutto (e sappiamo bene che disastro è questa cosa).
Vede che se va benissimo a scuola i suoi genitori lo apprezzano? Allora cercherà di essere il migliore, il più bravo; si sentirà qualcuno e baserà la stima di sé solo nel risultato scolastico (ma la vita è ben più grande della scuola).
La perfezione è così: faccio una cosa (-ficere) così da avere (per-) qualcos'altro (amore, accoglienza, approvazione, stima, ecc).
I farisei rispettavano tutte le 613 leggi della Legge: erano perfetti. Erano perfetti per ottenere stima e riconoscimento dagli altri: "Ma che bravi! Quelli sì che sono santi! Quelli sono da imitare!". Ma quei "perfetti" uccisero Gesù.
Erano "santi" perché avevano paura di vivere, avevano paura di esporsi, avevano paura di seguire la propria strada, avevano paura di individuarsi cioè di trovare il proprio unico sentiero da percorrere e per questo si conformavano. Erano senza identità, senza personalità: dietro la maschera non c'era niente. Perché più un uomo è senza personalità e più cercherà di conformarsi.
Quand'ero piccolo era stimatissima una coppia che andava a messa tutti i giorni, remissivi, disponibili fino all'esaurimento per tutti. Da tutti venivano stimati ed elogiati. Noi ragazzi li chiamavamo gli "zombi (i morti che vivono)" e nella nostra ingenuità forse avevamo colto nel segno: non erano capaci di dire di "no", erano schiavi dal dover accontentare tutti (eccetto se stessi) e nel non poter deludere nessuno (soprattutto le figure religiose); dovevano pregare per paura (altrimenti Dio non li avrebbe più voluti).

Il santo non è questa figura. Basta vedere il vangelo e guardare di chi si circondava Gesù.
Il santo è uno "altro". Non fa come tutti gli altri perché fare come tutti gli altri vuol dire sprecare la propria esistenza. Il santo è colui che ha la sua strada, che è "altra", cioè diversa da tutte le altre strade. Lui fa la sua strada che è solo sua e di nessun altro.
Quando ti dicono: "Ma sei proprio diverso da tutti gli altri!", e tu ti senti sbagliato perché non fai come tutti gli altri mentre così ti viene richiesto, dovresti rispondere: "Per fortuna!". Per fortuna che sono un pezzo unico, originale, per cui ha senso il mio esserci.
Quando ti dicono: "Ma sei proprio strano, tu!", come a dire: "Stai sbagliando perché non fai come gli altri", dovresti rispondere: "Non strano, diverso!; non come tutti gli altri ma secondo il mio modo".
Io ho un senso per l'universo. Cioè: c'è un senso e una ragione ben precisa per cui esisto in questo tempo e in questo spazio. Non sono qui a caso. Il mio esserci ha uno scopo. Quando faccio come gli altri, quando per paura abdico, rinuncio alla mia strada o copio gli altri per non espormi troppo, allora io rinuncio al motivo per cui ci sono. Faccio come un altro, ma il mio esserci non può essere come nessun altro, altrimenti non ci sarei (c'è già lui!).
L'amore è questo: "Tu non puoi diventare come me! Tu sei "altro" da me, hai una forma, una vita, uno scopo, che non è il mio. Se diventi come me tu rovini la tua vita. Se ti chiedo di diventare come me ti chiedo di sacrificare la tua vita. Ma se ti chiedo di diventare come me, forse, è perché io non sono diventato come me.

L'altra grande caratteristica del santo è la felicità. Quando i preti dicevano a noi ragazzi: "Chi di voi vuole diventare santo?". Tutti noi dicevamo, in silenzio dentro di noi: "Io no, io no! Fa' che non mi guardi, fa' che non mi veda, che non lo chieda a me!". E se il prete non te l'aveva chiesto, si diceva: "Uau!, scampato pericolo!". Ci fa ridere, ma chiediamoci: cosa c'è dietro a questo rifiuto?
Nel nostro immaginario il santo è uno che deve rinunciare ad un sacco di cose. Santo, per noi, vuol dire "no" a questo, "no" a quello, niente divertimenti, niente sesso, niente amore, niente lasciarsi andare, niente slanci, niente emozioni. Se fosse così, speriamo che nessuno diventi santo perché sarebbe patologico! L'idea che abbiamo è che santo voglia dire privazione, sacrificio, rinuncia. Ma non è così. Guardate Gesù!
Santo vuol dire realizzazione di sé. Santo vuol dire: "Vivo per espandermi, per realizzare tutte le mie doti e tutte le mie dimensioni". L'affettività, la spiritualità, il progetto di vita, la comunione, l'ascolto, il dialogo, l'amore, che tutto si espanda al massimo delle mie possibilità.
Santo vuol dire la vita scorre in me, che mi sento vivo e che si sente che sono vivo.
Santo vuol dire che sono felice di ciò che sono, di ciò che faccio, di come sono e di come lo faccio.
Santo vuol dire che ciò che faccio/sono lo faccio perché lo voglio, perché mi sento libero di farlo.
Santo vuol dire che questo è il miglior modo per realizzarmi ed essere me stesso.
Santo vuol dire che ho un fuoco dentro, una motivazione forte, e che per nessuna cosa al mondo lascerei la mia strada per farne un'altra: piuttosto la morte. Meglio una morte da vivi che una vita da morti.
Santo vuol dire che mi sento vivo, fecondo, centrato su di me, vibrante, realizzato.
Santo vuol dire che rido, scherzo, gioco, mi diverto, sorrido, perché se sei felice si vede e traspare.
Nella "Vita della beata Umiliana de' Cerchi", di fra Vito da Cortona, si racconta: "Mentre la santa giaceva nel suo letto, dentro la sua cella nella torre, ecco un bambino di quattro anni o poco più, dal volto bellissimo: giocava nella sua cella davanti a lei. Quando lo vide provò una grande gioia e gli disse: «O amore dolcissimo, o carissimo bambino, non sai fare altro che giocare?». E il bambino rispose: «Che volete che faccia?». E la benedetta Umiliana disse: «Voglio che tu mi dica qualcosa di bello su Dio». E il bambino disse: «Credi che sia bene che uno parli di se stesso». E disparve".

Il vangelo ci presenta le beatitudini. Sono indicazioni per essere felici.
Nel nostro tempo si pensa che la felicità si possa produrre. Un po' di jogging; un week-end in un wellness-hotel per farsi coccolare con massaggi rilassanti e tonificanti, saune e oli essenziali; una vacanza in un agriturismo biologico; una vincita al Superenalotto, un nuovo amore o "una nuova storia", ecc. Tutto questo ci dà delle emozioni ma la felicità è un'altra cosa. La felicità non si può produrre (per questo nessuno la può vendere e nessuno la può comprare): è il risultato di una vita riuscita.
Il termine makarios (beati, felici) era riservato agli dei dell'Olimpo. Era la felicità del cielo. Le beatitudini, allora, sono il tentativo di mostrare le strade da percorrere per poter essere felici per davvero, per poter partecipare alla "felicità del cielo", divina, quella felicità che nulla ti può togliere (né persone, né fatti di vita).
"Vuoi essere felice veramente?". Cammina su questa strada. Il vangelo ne propone varie.

La prima strada dice: "Beati i poveri in spirito perché di essi è il regno dei cieli".
Il nostro tempo è bramoso di ricchezza. C'è un giovane che si è comprato un Cayenne: spende il 70% del suo stipendio per la rata mensile. Adesso che ce l'ha "si sente qualcuno". Le ragazzine bramano di fare il concorso per il Grande Fratello o di essere Veline: allora sì che saranno qualcuno. In certe scuole se tuo figlio non è vestito "firmato" viene escluso e tagliato fuori. Una ragazza, anni fa, veniva emarginata perché suo padre era un pastore di pecore.
La ricchezza non è da buttare via, non è male. Il problema è un altro. Il problema è che io mi attacco alle cose. Faccio dipendere il mio valore da ciò che ho. Ho bisogno di quel vestito, di quell'auto, di stare con quelle persone, di frequentare "quei giri", altrimenti mi sento nessuno, altrimenti mi sento uno "sfigato" o senza valore.
Ricchezza è tutto ciò a cui dico: "Senza di te non posso vivere". Prendo una cosa (una persona) e la faccio Dio. E' una droga: "Ho bisogno di te per vivere, per essere qualcuno, per sentirmi qualcuno". Per questo la Bibbia dice: "Fa' che solo Dio sia Dio e non altre cose". Allora divento dipendente, schiavo delle cose. Non sono più libero ma divento servo, schiavo: faccio delle cose la mia vita.
Quando faccio e vivo così, credo, che le cose mi possano fare felice. Ma nessuna cosa mi può fare felice se la felicità non abita e non c'è già dentro di me. E' un'illusione. Povertà in spirito non è non avere niente (miseria) ma non essere attaccati a niente. E' molto diverso!
Godo della pizza, della pasta alla carbonara, della meringata e della birra: se ce l'ho ne godo, lo assaporo e ringrazio Dio; ma se non ce l'ho va bene lo stesso, perché la mia felicità non dipende da queste cose. Voglio poter essere libero (povero) anche se non ho tutto questo.
Mi fa bene e mi fa felice che gli altri mi stimino e mi dicano: "Bravo!"; ma non mi attacco alla maschera del dover andar bene agli altri perché non è l'approvazione che mi rende felice. Voglio essere libero (povero) da non dover dipendere da ciò che gli altri dicono.
Godo dei sorrisi, dei baci, del contatto, della presenza di chi amo: ma se non ce l'ho non mi attacco a ciò che è stato e che non c'è più e non cerco disperatamente gli altri, come un mendicante, per colmare il mio buco. Spero che mi amiate ma non dipenderò dal vostro amore (ecco la libertà-povertà).
Godo dei miei beni e dei miei soldi, li uso e li spendo (chi non li usa, l'uomo tirchio, avaro, di certo è un uomo attaccato!), ma non voglio che dall'accumulare dipenda il mio umore e che mi diano preoccupazione. E se un giorno avrò solo quelli per vivere, sarò felice lo stesso.
Godo dei miei figli e gioisco quando stanno con me; ma non sono la mia felicità per cui quando se ne andranno non perderò la felicità perché non li ho più. Non farò di loro la mia vita, altrimenti quando se ne andranno morirò dentro.
Essere poveri vuol dire essere liberi. Entro in tutte le cose ma non possiedo nulla e non mi attacco a nulla.
Prendete la cosa/persona più importante della vostra vita e ditele: "Tu non sei mia!". Quando riusciremo a farlo di cuore saremo veramente felici. E perché saremo felici? Perché saremo liberi.

La seconda strada per arrivare a Dio, per essere felici, dice così: "Beati quelli che piangono (gli afflitti) perché saranno consolati". Qualcuno ha pensato, leggendo questa beatitudine, che bisognasse soffrire per essere santi. C'è stato perfino chi diceva: "Più soffri, più ti imponi sofferenze e più sei santo". Ma Gesù non vuol dire affatto questo.
Vivere comporta soffrire e piangere. Ma cosa succede se questo dolore rimane dentro? Cosa succede se non viene espresso? Cosa succede se le calde lacrime della vita non escono dai nostri occhi? Succede una cosa semplice ma terribile: diventiamo insensibili ad una parte della realtà o a tutta la realtà. Così diventiamo di ghiaccio e nulla ci può toccare; così diventiamo razionali per proteggerci dal dolore che abbiamo dentro oppure giudicanti per vendicarci sottilmente del dolore ricevuto.
Il dolore non espresso, in ogni caso, ci indurisce e ci impedisce di provare compassione e amore. Avete presente l'acqua: ma quant'è bello farsi un bel bagno in acqua calda! Ci si sente protetti, avvolti... Ma cosa succede se quell'acqua si raffredda e si ghiaccia? Succede che diventa tagliente, impenetrabile e dura. E' quello che succede al nostro cuore quando non impariamo ad esprimere la sofferenza di ciò che si vive.
Bisogna piangere non perché si è dei "frignotti", delle lagne, ma perché il nostro cuore non muoia.

Ti avevano proposto di far carriera al lavoro, solo che si trattava di andare in Cina. Tu dovevi decidere: la carriera o sposarti (eri fidanzato da sei anni). Hai fatto la tua scelta. In ogni caso, una ha escluso l'altra. La scelta possibile, ma non fatta, ti fa soffrire. Non tenerti dentro il dolore dicendoti (frase consolatoria): "Non si può avere tutto nella vita!". Sì, è vero, ma il punto è che hai dovuto, per prendere una, lasciarne un'altra. Esprimi il lutto, il dolore, per ciò a cui hai rinunciato.
E' morta la nonna di 95 anni. Esprimi il tuo dolore. Non nasconderlo dicendo: "Ha fatto la sua vita! Era ora! Eravamo preparati! Arrivassi io alla sua età". Esprimi il dolore che se n'è andata, che non c'è più, che ti mancherà e che le volevi bene. Altrimenti questa sofferenza te la porti dentro e ti tormenterà. Quante persone continuano a soffrire per cari che sono morti dieci, vent'anni fa. Sono rimasti ancora lì.
Avevi una compagnia di amici bellissima, con cui vi divertivate tanto; c'era un prete fantastico nella tua parrocchia con cui avete fatto un sacco di cose insieme; avevi un allenatore bravissimo e adesso tutto questo non c'è più. Esprimi che ti fa male, che ti dispiace; senti ciò che hai perso. Se non lo fai rimarrai legato al passato, rim-piangendolo (il pianto non espresso di ogni giorno). Ma se lo esprimi si aprono altre possibilità.
Tuo figlio piange perché lo hai rimproverato perché picchiava il gatto. Non dirgli: "Non piangere! Queste cose non si fanno!". E' vero, non si fanno ma lascialo piangere. Piange il fatto che non si può fare quello che si vuole nella vita e che non si può fare male agli altri.
Tuo figlio è stato lasciato dalla sua fidanzata. Tu vorresti consolarlo, "fargliela passare": "Vuol dire che non ti meritava! Ma sì, dai, ne troverai di certo un'altra! Per una che perdi cento ne trovi". Lasciagli la tristezza, lascialo piangere. Deve accettare che lei lo ha lasciato. Se gli impedisci di piangere, si terrà dentro il dolore e potrebbe rimanere legato a lei (per cui nessun amore sarà come quello) oppure non coinvolgersi mai più così tanto nel futuro ("se si soffre così meglio non buttarsi più così tanto").
A volte le persone dicono: "Ma perché da quando mi ha lasciato mia moglie (o la mia fidanzata) non me ne sono trovata nessun'altra?". "Perché sei ancora legato a lei (dentro di te)". Se si è "sposati" (nel senso di legati) non ci si può "sposare" con nessun altro. Il dolore non espresso ci fa vivere nel passato.
C'è un uomo che dopo essere stato lasciato si è buttato nel lavoro e nella meditazione. Lui si considera un uomo "spirituale" e per questo guarda dall'alto in basso tutti gli altri, soprattutto quelli che, al contrario di lui, non fanno meditazione. Gli altri lo ammirano ma è proprio questo il punto: il suo lutto d'amore perso lo ha sostituito con l'amore dell'approvazione per la sua spiritualità. E' solo una sostituzione, non ha ancora pianto la donna che lo ha lasciato.
C'è una donna che vuole soluzioni: "Cosa devo fare? Sono stanca di guardarmi dentro, voglio sapere come devo fare per essere felice". Sua madre era depressa e suo padre, per scappare, era sempre al lavoro. Lei ha sofferto tantissimo le crisi e gli sbalzi di sua madre che aveva molto più bisogno di lei. Dovrebbe accettare e risentire questa sofferenza. Lei dice: "Ho già pianto abbastanza!". In realtà non ha mai sentito la profondità del suo dolore. Ma è questa barriera che l'allontana dalla fonte della vita che scorre nel suo cuore.

Piango, esprimo il lutto non perché voglio soffrire ma perché voglio abbandonare le illusioni della vita. E' inutile inseguire ciò che non c'è più, ciò che è stato o ciò che non posso avere o ciò che è morto. Allora, esprimo il mio dolore, ci faccio il funerale, lo seppellisco e continuo a vivere.
Piango per sentire: sento il dolore ma anche l'amore, la tenerezza, la passione, il tuo dolore. Piango perché sento la gioia (commozione), piango perché sono felice. Piango quando vedo la vita crescere, svilupparsi, fiorire, divenire: allora mi sento immerso e parte del mistero enorme della vita.
Piango quando vedo la vita risorgere, la luce tornare negli occhi spenti, le mani e i piedi muoversi o riprendere a camminare, l'amore fiorire dove tutto si era rinsecchito.
Piango perché soffro, perché sono ferito, perché mi attacco a idee che esistono solo nella mia mente e nella mia testa, perché vivo situazioni che mi fanno male, perché sono limitato e imperfetto, perché so che devo morire, perché s'invecchia, perché il tempo passa, perché non tutto si può realizzare, perché sbaglio, perché sono rifiutato, perché sono attaccato, a volte con motivo e a volte senza. Piango perché in certi giorni sono come la pioggia: viene giù perché deve scendere anche se neppure io so il perché.
Piango per lasciar andare: voglio staccarmi da ciò che non c'è e vivere ciò che c'è e che esiste.
Piango perché sono toccato: sento quello che mi dici, sento quello che succede, e il mio cuore non può rimanere indifferente. Piango perché ti sento, perché sento la tua paura e la tua vulnerabilità; piango perché ti voglio bene ma sono impotente.
Piango perché sono vivo.


Pensiero della settimana
L'Amore disse all'Amicizia: "Perché esisti tu se ci sono già io?".
L'Amicizia rispose: "Per portare un sorriso
dove tu hai lasciato una lacrima".