Omelia (25-10-2009) |
don Daniele Muraro |
Secondo l'ordine di Melchisedek Gesù nel Vangelo viene chiamato "Figlio di Davide" e quindi Re. Chi si rivolge a Lui con questa espressione è un mendicante cieco, seduto lungo la strada che uscendo da Gerico porta a Gerusalemme. "Figlio di Davide" propriamente fu Salomone conosciuto anche come sovrano misericordioso e vicino alla povera gente. Tali qualità, potenziate, il cieco Bartimeo le riconosce in Gesù. Lo stuolo degli accompagnatori del Maestro riprende il cieco e lo ammonisce di stare zitto. C'era la premura per il viaggio a piedi appena iniziato (Gerusalemme distava una trentina di chilometri) o forse disturbava i discepoli il pericolo di fraintendimento. Il titolo "Figlio di Davide" e quindi Re poteva essere usato in senso nazionalistico, in opposizione all'autorità romana. Fatto sta che ad un certo punto Gesù si ferma e invita gli stessi che volevano far tacere il cieco a chiamarlo in modo da farlo avvicinare e così parlargli. Bartimeo abbandona il suo mantello, unica sicurezza nella vita di mendicante, e si presenta subito al Signore rispondendo alla chiamata. "È per la tua fede, gli dice Gesù, che sei salvato!". Bartimeo riprende a vedere, troviamo scritto (non si tratta di un cieco dalla nascita), e poi si mette a seguire il Maestro conquistato dalla sua bontà e dalla potenza della sua persona. Era già viva in lui quella fede che di lì a qualche anno i primi evangelizzatori avrebbero portato ad esempio nelle catechesi servendosi proprio di questo brano per illustrare ai prossimi battezzandi il passaggio dalle tenebre del male alla grazia della vita nuova in Cristo. Se il Vangelo ci fa capire che Gesù non rifiuta il titolo di Re, la seconda lettura Gli riconosce la dignità di Sommo Sacerdote. La lettera agli Ebrei da cui è preso il brano è tutta costruita attorno a questa idea: Gesù Cristo è il sommo sacerdote fedele e misericordioso di cui avevamo bisogno e il suo sacrificio riveste un valore unico per noi quanto a efficacia e continuità. In questo anno sacerdotale può essere interessante soffermarci sull'argomento. Da sempre gli uomini hanno cercato qualcuno che li rappresentasse presso Dio. Questa era anche la funzione del sacerdozio ebraico: offrire doni e sacrifici per i peccati. In particolare tale incombenza veniva assolta ad opera del Sommo Sacerdote una volta l'anno nel giorno dell'espiazione. Egli era il meno indegno per così dire di presentarsi al cospetto di Dio, ma essendo anche lui soggetto a debolezze, a causa di queste doveva offrire sacrifici di riparazione per se stesso e non solo per gli altri. Secondo l'autore della lettera agli Ebrei dunque il tratto distintivo del sommo sacerdote ebraico non era la distinzione rispetto alla massa, ma avrebbe dovuto essere la compassione nei confronti dei fedeli che come lui o più di lui potevano sbagliare vuoi per ignoranza vuoi debolezza. Per questo era importante che chi esercitava quel ministero fosse pervenuto alla carica non per ambizione di potere, ma in risposta ad una genuina vocazione interiore. Sappiamo dalla storia che non sempre le cose erano andate nel verso raccomandato dal libro sacro. Essendo rimasta l'unica forma di potere in mano giudaica, l'elezione a sommo sacerdote negli ultimi due secoli prima di Gesù era diventata oggetto di intrighi dinastici e maneggi affaristici. Il primo sommo sacerdote fu designato direttamente da Dio. Si tratta di Aronne, fratello di Mosè. Allo stesso modo, dice la lettura, Cristo non si attribuì da solo la gloria di sommo sacerdote, ma gliela conferì Dio stesso come è scritto nel salmo 110: «Tu sei sacerdote per sempre, secondo l'ordine di Melchìsedek». Melchìsedek è un personaggio misterioso, ma importante. Sacerdote anche lui ma molto più antico di Aronne, contemporaneo di Abramo, da quest'ultimo aveva ricevuto doni votivi in segno di devozione. Senza padre né madre degni di menzione, cioè senza genealogia, Melchìsedek rappresenta bene la condizione del Figlio di Dio fatto uomo e anche dei sacerdoti della Nuova Alleanza che diventano tali perché chiamati da Dio e non per eredità di nascita. Il sacerdozio nella Chiesa non si configura come una posizione sociale a cui aspirare, ma come una chiamata a cui rispondere quando la si accetta e di cui rispondere dopo che la si è esercitata. Il sacerdote cristiano non si sostituisce a Cristo, ma lo rappresenta. Sant'Agostino ci ha lasciato parole forti a tale proposito. Per il fatto che a favore dei suoi fedeli era vescovo, egli non dimenticava che con loro era cristiano. Per lui quello di vescovo era un compito ricevuto, l'essere cristiano una grazia; e arrivava a dire: "cristiano è nome di salvezza; vescovo nome di pericolo". Ai nostri giorni si parla di crisi di vocazioni. Nei sistemi democratici tutte le cariche sono elettive. Per i bisogni delle parrocchie questa non può essere la soluzione; il compito del sacerdote supera le capacità umane. A chi si candida si richiede certamente una buona reputazione presso il popolo dei fedeli, ma solo la chiamata di Dio può garantire un sacerdote dai "pericoli" del suo ufficio. In ogni caso nella Chiesa non può mancare questo dono di Dio che è il sacerdote. Chiediamolo nella preghiera. A quelli che possono essere chiamati poi non manchi il nostro sostegno morale, né facciamo mancare loro le parole incoraggiamento che abbiamo sentito rivolte a Bartimeo: "Il Signore ti chiama? Coraggio! Àlzati e seguilo...". |