Omelia (16-04-2000) |
mons. Antonio Riboldi |
Mettiamoci nella scia fiduciosa della speranza Ci volle un gran coraggio da parte di Gesù, per entrare in Gerusalemme quel giorno delle Palme! Sapeva molto bene e Lo avevano avvertito gli stessi Apostoli, che oramai il "vaso dell'odio, della volontà di togliere di mezzo uno che disturbava o addirittura metteva in crisi la religione dei padri che si insegnava, traboccava". Non si sapeva come, ma gli Apostoli sentivano che questa volta sarebbe successo qualcosa di tragico; forse non supponevano la morte di Gesù. Tanto meno supponevano quella passione, quella morte in croce. L'aveva sì, Gesù, detto più volte, senza essere capito mai, che Lui un giorno sarebbe salito a Gerusalemme e lì gli scribi e i farisei – ossia i custodi della legge del Signore, custodi che Gesù non esita a definire per la loro falsità "ipocriti", "razza di vipere", "sepolcri imbiancati" – lo avrebbero fatto arrestare, flagellare e condannare a morte, E' necessario, sottolineava sempre Gesù, "ma poi il terzo giorno risorgerò". Chissà con quanta tristezza da una parte Gesù avrà detto di fronte alla sua passione: "E' necessario". E' una via obbligata perché è la sola via per fare arrivare l'amore agli uomini. E' una via dura. "Se possibile, Padre, allontana da me questo calice". Ma è la meravigliosa via della donazione completa che, pare un paradosso, forma la gioia di chi ama. E quella domenica mattina si diverte Gesù a colorare di speranza, di voglia di pace, le strade di Gerusalemme. Cavalca un asinello. Ed è commovente, fino alle lacrime, vedere il nostro Dio fattosi vicino a noi, come uno di noi, passare tra di noi su un piccolo asino, come a suscitare gioia anziché imporre timore per il prestigio. Perché aveva la debolezza del bambino. Eppure in quei pochi anni di presenza tra gli uomini, quella "debolezza" di Gesù aveva dato sempre segni di fortezza. Una fortezza che veniva solo dalla Verità e dall'Amore che erano tali da scuotere la sicurezza di tutti fino a portare ad accettarLo, a progettare la Sua morte. "Condussero l'asinello da Gesù – racconta il Vangelo – e vi gettarono sopra i loro mantelli, ed Egli vi montò sopra. E molti stendevano i propri mantelli sulla strada e altri delle fronde che avevano tagliate dai campi. Quelli che poi andavano innanzi e quelli che venivano dietro gridavano: "Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Benedetto il regno che viene... Osanna!"" (Mc 11, 1-10). In queste invocazioni di festa che sono nello stesso tempo una vera proclamazione di fede, come dicessero "Credo e faccio festa perché Tu sei il Messia mandato dal Signore. Credo e faccio festa perché in Te e con Te è venuto tra di noi il Regno del Padre. Osanna". C'è tutta la speranza di quanti ponevano la loro speranza in Cristo, figlio di Dio, nato da Maria. Gerusalemme era piena di contraddizioni, come sono le nostre città di oggi: conosceva egoismi, odi, violenza, sopraffazione, ipocrisia, emarginazione, povertà, ecc. Non c'era posto, almeno in apparenza, per la bontà, l'amore vero, la speranza. Tutto sembrava sepolto sotto questi segni di morte. Eppure Gesù quel mattino fendeva come una lama questa coltre di disperazione e di morte dell'uomo e tracciava una scia di speranza, di certezza, di vittoria, la vittoria dell'amore, che non sarebbe stata bella come la caduta di una stella, ma sarebbe stata la certezza, la novità di tutta l'umanità. Commuove allora contemplare il viaggio di Gesù su un asinello in mezzo ad una folla in tripudio: un tripudio che era come cantare vittoria all'amore che sa solo cavalcare un asinello, mettersi un grembiule per servire, salire su una croce per dare vita, farsi eucarestia perché chi vuole condivida morte e resurrezione, dolore e felicità, umanità e divinità. Nessuno sa cosa sarà salito alle labbra di Gesù in quel viaggio. Forse il suo sguardo si fermava su quanti fra poche ore Lo avrebbero strattonato, picchiato, deriso nella passione. Lui era abituato a leggere il cuore degli uomini che incontrava. Forse il suo pensiero correva ai suoi discepoli che quel mattino partecipavano alla festa delle palme, come fosse stata un poco anche la loro festa; in fondo si sentivano "suoi": senza neppure immaginare che a distanza di pochissimi giorni per paura, per caratteristica debolezza della natura umana, sarebbero scappati come fuggissero da un pericolo. Avrebbero preferito salvare la propria pelle, senza rischiare neppure un'unghia per tentare di salvare Gesù. Forse i suoi occhi correvano lontano al Calvario, dove il suo amore si sarebbe consumato come una torcia che vuole illuminare e scaldare il mondo per sempre; e può farlo solo stando lassù. O forse guardava a me, a voi, che oggi agitiamo le palme e non abbiamo ancora deciso se metterci nella fila della fiduciosa speranza dei poveri che dicono a Gesù: "Tu sei la mia vita, altro io non ho", ponendo ai suoi piedi ciò che noi abbiamo con la carità verso il prossimo ma anche le nostro purtroppo ripetute manchevolezze con il sacramento della penitenza. 0 forse non abbiamo il coraggio di fare tutto questo perché Gesù non è ancora diventato la nostra Vita, come lo era per quella folla. E quindi ce ne stiamo distanti, chiusi alla speranza e alla pace, sepolti nella disperata certezza che nulla può salvarci. |