Omelia (07-05-2000) |
mons. Antonio Riboldi |
Pensare ed amare in grande L'inizio del Vangelo di oggi accenna al meraviglioso episodio dei due discepoli di Emmaus. Se ne andavano da Gerusalemme ad Emmaus quasi volessero fuggire da una realtà che non riuscivano ad accettare: la crocefissione, morte e sepoltura di Gesù. "Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele..." racconteranno poi a Gesù. Ma alla loro incredulità per quanto era successo si era aggiunta la notizia, data da alcune donne che si erano recate al sepolcro, trovato vuoto, che Gesù era veramente risorto. Tutto questo, anziché rincuorarli, farli esplodere dalla gioia per un evento che superava di gran lunga quello che forse si aspettavano da Gesù, li rende più tristi. Non riescono a spiegarsi il mistero che oggi noi definiamo "pasquale", che forma il fondamento della nostra fede, la bellezza della nostra speranza, la profondità della nostra carità. "Se Cristo non fosse risorto – esclama san Paolo – la nostra fede sarebbe inutile": tutto l'uomo, la sua libertà, il suo senso, la sua vita, il suo dopo, i suoi sacrifici, dipendono da lì. Troppo grande questo amore di Dio per essere abbracciato dalle piccole mani dell'uomo; troppo immenso per essere contenuto nella mente e nel cuore dell'uomo che oltre a essere incredibilmente piccoli, sono anche gretti, facilmente preda del dubbio o peggio ancora dell'errore. Difficile pensare "in grande", amare "in grande", superare i confini delle nostre vedute umane per entrare nelle "utopie" di Dio. E così, come i due discepoli, pur con le certezze nelle mani, camminiamo con il cuore triste. Gesù sa molto bene quale sia la nostra miseria, una piccola anfora, che non riesce a contenere l'oceano divino. Ed allora si accosta in punta di piedi, senza farsi riconoscere: con l'aria di chi non "è dentro il dubbio" mentre invece è il soggetto proprio del dubbio. "Perché siete cosi tristi?" è la domanda immediata, con il sottinteso: "non dovreste gioire dopo tutto quello che e avvenuto proprio questa mattina e fu annunziato alle donne dagli angeli?". E i due raccontano la storia della crocifissione, come Gesù fosse "un forestiero" niente affatto interessato al dramma di Gerusalemme. Gesù li ascolta amabilmente, pazientemente: ascolta la "sua storia" raccontata malamente da chi Gli era stato vicino per anni. Vede in faccia la povertà di questi uomini che anche se li metti davanti alla morte e resurrezione, ossia al disegno dell'amore di Dio non come discorso, ma come fatto concreto, non riescono a crederci. Come del resto facciamo noi oggi, ed in modo vistoso. Alla fine Gesù ha come un gesto di ribellione: "Stolti e tardi di cuore nel credere alle parole dei profeti!". E fa da catechista fino a fare dire ai due: "Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, mentre ci spiegava le Scritture?". Ed alla fine Gesù suggella la sua verità con "lo spezzare il pane", il segno dell'amore di Dio che si fa condivisione, si fa mensa con gli uomini. E proprio lì "si aprono i loro occhi e lo riconoscono". Corrono dagli altri: "Abbiamo visto il Signore!". Ma era come gettare un cerino nel buio. Appare Gesù e lo credono un fantasma. Fino a che, anche lì, chiede del pane, come a rinnovare "il segno" che solo Lui poteva comunicare. "Ora siete miei testimoni" dirà alla fine. E' il grande mandato Apostolico che sorregge la nostra Chiesa, la nostra fede, destinato ad accompagnare la storia dell'uomo fino al compimento del Regno dei cieli. Credo che tutti noi, ognuno per il suo verso, tante volte si trova ad essere "triste" "stolto o tardo di cuore", come i discepoli di Emmaus. Sono troppe le circostanze che sembrano cancellare le tracce di una sicurezza su questa terra: sicurezze che tante volte ci creiamo e che confondiamo come tracce della via di Dio. E quando spariscono ci si sente come morti, senza un perché per vivere. Pensiamo per esempio agli ammalati, a tanti piccoli e grandi drammi familiari, sociali, personali. Questo crocifiggere le speranze degli uomini è un'arte professata un poco da tutti e dovunque. Cominciano allora le domande angosciose che a volte sfociano in veri drammi: "come farò? E' meglio che muoia! Che dirò?". E sembriamo tutti ciechi che annaspano in una grande nebbia, senza più voglia di credere, senza più voglia di amare, e di sperare, come non ci fossero più certezze o salvezza. Ne incontriamo tutti di questi ciechi che annaspano, facendo infinite domande a vicenda che ad altro non riescono se non a ingarbugliare la matassa. E' in quel momento che le parole debbono essere messe in disparte e ricorrere al "segno" che scioglie ogni dubbio e fa tornare a conoscere le vie di Dio che sono sempre chiare, anche se si è in croce. Non è solo il "segno dell'Eucarestia", dove Gesù sedendosi a mensa con noi, ci ridona la serenità perché ci partecipa della sua certezza e gioia. E' anche "il segno dell'amore" che dobbiamo dare e possiamo attenderci dagli altri. Come lo spezzare del pane di Gesù a Emmaus. Nessuna parola è tanto esplicita, non ha cioè bisogno di spiegazione, come "lo spezzare il pane", ossia come il condividere le ansie e le sofferenze dei fratelli. Lì veramente si ripete la Pasqua. Quante volte abbiamo sperimentato tutti questo aprirsi dei cieli. |