Omelia (15-11-2009)
Paolo Curtaz
Apocalissi

Siamo alla fine dell'anno liturgico, stiamo per salutare l'amico Marco e Pietro, suo maestro.
Domenica prossima affronteremo la sconcertante festa della regalità di Cristo, poi l'Avvento a preparaci a sopravvivere alla tragedia del Natale (non che sia una tragedia, è che così l'abbiamo ridotto!).
Oggi la Parola ci orienta in una direzione ostica e impegnativa, ci invita a guardare avanti e altrove e con un altro sguardo.

Avanti
È uno dei temi più trascurati della fede cristiana, essendo la Chiesa tutta intenta, in questi fragili tempi, ad andare all'essenziale: è il tema del futuro, della fine del mondo, in teologichese, i novissimi.
Cosa succederà domani? Come andrà a finire la Storia? Che ne sarà di noi?
Predicazioni medioevali e film di serie "B" ci rappresentano la fine del mondo come un delirio di fiamme e di distruzione, come il sommo giudizio finale fatto di caligine e di paura.
La "colpa" di questa interpretazione approssimativa è del linguaggio apocalittico usato da alcuni libri della Scrittura, come il brano di Daniele che abbiamo letto oggi, fatto di forti immagini da non prendere alla lettera.
Ciò che i cristiani hanno capito è semplice: Cristo, risorto e asceso al Padre, tornerà nella pienezza dei tempi, tornerà per completare il suo Regno, le anime dei nostri defunti riprenderanno i propri corpi trasfigurati e risorti e sarà la pienezza. Nel frattempo - e questa è una nota dolente - quel buontempone di Dio ha affidato a noi, fragile Chiesa, il compito di far crescere il Regno.
San Paolo si chiedeva (!) perché Cristo tardasse tanto, avendo le comunità una fortissima tensione per il ritorno del Signore. La sua risposta è struggente: se Cristo è il capo, la testa, e noi siamo membra di un corpo, egli tornerà solo quando tutto il corpo sarà sviluppato e pronto.
Questo è il tempo della Chiesa.
Non il tempo di restare seduti ed aspettare (come sta succedendo), ma di annunciare il Vangelo, finché il Signore torni.
Una corrente del pensiero ebraico contemporaneo invita tutti, anche i non ebrei, a comportarsi secondo rettitudine, per accelerare la venuta del Messia, per noi il ritorno.
Non è una ragione sufficiente per cambiare il mondo a partire da noi stessi?

Altrove
Gesù ci ammonisce: la costruzione del Regno non è necessariamente semplice, non è un passaggio di gloria in gloria, essere travolti dal Vangelo ed iniziare il cammino di discepolato significa porsi in un atteggiamento di cambiamento perpetuo, di fatica nell'affrontare le contraddizioni del sé e del mondo. Il Regno subisce violenza, non si manifesta con adunate oceaniche e opere mirabolanti.
Nel segno della contraddizione, della fatica si esplica il Regno, fra il già e il non ancora, allontanandoci dalla logica manageriale del successo misurabile che - ahimè - a volte si insinua anche nella logica ecclesiale.
Gli angeli radunano i discepoli dai quattro angoli della terra, coloro che affrontano con serenità la costruzione del Regno vengono radunati e sostenuti. Solo la Parola e la certezza di avere sperimentato Dio o di averne intuita la presenza ci fanno andare avanti tra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio.
È per me segno di immensa consolazione, nel mio pellegrinaggio di speranza in giro per l'Italia, in punta di piedi, accorgermi di quanto bene il Signore stia facendo nei vostri cuori e di come la Parola sia ormai la luce per molte coppie, per molti cercatori di Dio e consolazione per gli sconfitti.
È un modo altro di essere Chiesa, dispersi nelle nostre città, spesso senza scogli cui aggrapparci.
La Parola del Signore che non passa ci dice che il Signore è alla porta e chiede di entrare.

Con un altro sguardo
L'uomo sembra concentrato a distruggere il proprio futuro, ignorando i richiami della natura, facendo prevalere la logica del profitto ad ogni costo, accentuando le distinzioni, facendole diventare divisioni e odio razziale o religioso.
La fine del mondo la costruiamo giorno per giorno e, spesso, al viviamo come evento ineluttabile, e con un fatalismo crescente non facciamo altro che rifugiarci in un privato miope e dal respiro corto.
Siamo chiamati, invece, a rimboccarci le maniche, a rendere presente questo Regno che è già e non ancora, diventare profeti di conversione, non profeti di sventura.
Il mondo non precipita nel nulla, ma nelle braccia di Dio, e la Parola, che dimora, che resta, è l'appiglio che la Chiesa ha per leggere la storia e per vedere il Regno che avanza.
Non è facile vederlo, ovvio.
Incontro molte persone, molti preti, molte realtà di Chiesa, dalle parrocchie immense di Roma a quelle perse sull'Appennino, comunità dinamiche e comunità addormentate, tradizione e innovazione, fatica e speranza, profezia e lentezza. Ma vedo.
Vedo l'opera straordinaria che il Signore compie in voi, in me, in noi.
Arresi alla Parola, malgrado la fatica, il dolore, la logica del mondo che ancora alberga nei nostri cuori nei nostri giudizi, vedo lo Spirito che avanza e dice alla sua sposa, la Chiesa: vieni.
Lo vedete anche voi?

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