Omelia (15-11-2009) |
don Marco Pratesi |
Chi perde (per Dio) trova Il testo di Daniele rispecchia una precisa situazione di persecuzione: il tentativo violento di Antioco IV Epifane, re di Siria (e di Palestina), di imporre a Israele la rinunzia alla religione dei padri per abbracciare la religione pagana ellenistica (167-164 a. C.). Come sempre avviene in questi casi, si produceva una divisione: da un lato chi cercava di salvare la pelle adeguandosi, dall'altro chi resisteva, e magari ci rimetteva la vita. Il fedele moriva, l'apostata viveva. Questo paradosso contraddiceva totalmente la tradizionale visione teologica, secondo la quale il giusto vive a lungo, prosperando nella terra dei padri, mentre l'empio vede giorni brevi e infelici (cf. p. es. Dt 6,3, Sal 37). Non solo il libro di Daniele, ma l'intero Antico Testamento ha qui uno dei suoi momenti culminanti, annunziando la risurrezione futura. Nel tempo finale, attraverso la cura e la guida di Michele, l'angelo protettore di Israele (cf. 10,13), Dio dà al suo popolo vittoria. Il trionfo si esprime nella morte del persecutore (cf. 11,45) e nella salvezza di tutti quelli che sono scritti nel "libro della vita", cioè destinati alla vita. L'orizzonte è quello del popolo di Dio, il testo non si occupa dei pagani. Trionfo significa che ogni israelita fedele vive, e ogni rinnegato perisce, rimanendo escluso dalla vita. Il fedele che è riuscito ad arrivare vivo alla fine della persecuzione, continua a vivere; il fedele che vi ha perso la vita, risorge. Questo è il dato certo. Per il resto, il breve testo lascia aperte molte questioni. Se si intende alla lettera i "molti" del v. 2 (=non tutti), allora quelli che non risorgono sono probabilmente gli infedeli, i quali vengono in tal modo a sperimentare la condanna nella forma della non-risurrezione: la "vergogna e l'infamia eterna" è allora il giacere per sempre nella morte. Se per "molti" si intende invece "moltitudini", allora risorgono anche gli empi, e la condanna si esprime in una risurrezione per l'infamia eterna, non ulteriormente precisata. Il testo non si occupa delle generazione israelite precedenti, e forse nemmeno di tutti gli stessi ebrei del tempo della persecuzione, ma solo di quelli che in essa hanno preso posizione pro o contro la fede dei padri. Assegna poi un ruolo del tutto speciale non a chi ha preso le armi contro Antioco, né ai martiri veri e propri, ma ai maestri di giustizia, a coloro che hanno insegnato a rimanere fedeli all'alleanza ad ogni costo (v. 3; cf. 11,33-35). Non si possono fare a questo testo domande troppo precise, ma l'elemento centrale, chiaramente affermato, è di capitale importanza: la giustizia di Dio non permette che chi perde la vita per Dio la perda definitivamente; e ricompensa in modo particolare chi insegna che la comunione con Dio vale più della vita (cf. Sal 63,4). E' l'insegnamento di Gesù: chi pensa prima di tutto a salvarsi, si perde; chi accetta di pensare prima al Regno di Dio e addirittura di perdere la vita per esso, la ritrova moltiplicata (cf. Mt 5,33; 11,39; 19,29; Lc 17,33; Gv 12,25). Non è solo il suo insegnamento, è la sua esperienza: parola definitivamente chiarificante sarà Gesù di Nazaret morto e risorto. Sostenuto e illuminato da tale parola, anche il popolo cristiano potrà affrontare vittorioso i suoi tempi di angustia (cf. Mt 24,21; Mc 13,19; Ap 7,14; 12,7; 13,7-8). I commenti di don Marco sono pubblicati dal Centro Editoriale Dehoniano - EDB nel libro Stabile come il cielo. |