Omelia (21-05-2000)
mons. Antonio Riboldi
Non solo a parole, ma con i fatti

La grandezza di un uomo tante volte si misura dalla profondità con cui sa tessere i rapporti con chi gli è vicino o incontra sulla sua strada. Rapporti che non solo diventano poi sicura condivisione in tutto, ma costituiscono salde fondamenta su cui può stare tranquilla la fiducia. Ed è essenziale questo modo di stare insieme o vicini: oltre che vero dono. Così come la inconsistenza di un uomo è nella sua superficialità dei sentimenti: questi apparentemente hanno manifestazioni chiassose che sembrano "recitare" chissà quale amore; in effetti sono tanto effimeri che non vanno al di là delle parole o dei gesti donati con facilità ed effusione. Non possono essere salde fondamenta per una fiducia. Purtroppo il nostro mondo è fatto di questo effimero, al punto che quasi non è più credibile neppure la parola "amicizia".
Ci chiamiamo tutti amici: in apparenza ne abbiamo tanti; troppi: ma quando ci guardiamo dentro o cerchiamo la loro mano, o vorremmo posare il nostro capo sul loro petto, come fece Giovanni con Gesù, incontriamo uno spaventoso vuoto, che rivela la misura di rapporti o amicizie che sono un vuoto girare attorno alla grande e necessaria realtà dell'amore.
Qui, proprio qui, è uno dei grandi dolori che soffrono in tanti: quello di sentirsi soli, non abbastanza amati, o amati senza la necessaria profondità e condivisione.
Giovanni l'Apostolo, scrivendo alle prime comunità dei cristiani, lui che era stato il "discepolo che Gesù amava" e che quindi portava l'amore come la luce che dà vita all'uomo, così decisamente afferma: "Figlioli, non amiamo a parole, né con la lingua, ma coi fatti e nella verità... Questo, ricordatelo, è il comandamento di Dio: che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo e ci amiamo pli uni gli altri secondo il precetto che ci ha dato. Chi osserva i suoi comandamenti dimora in Dio ed egli in lui" (1 Gv 3, 18-24).
Sono parole chiare che non dovrebbero avere bisogno di commenti: ossia il comando di Dio è che amiamo tutti, senza eccezione, quanti il Signore ci mette sulla strada, non con la lingua che sa sempre trovare bellissime parole nel descrivere l'amore e i mille modi di amare; parole che però il più delle volte fanno parte dei sogni facili a comporre, forse nella illusione di aver adempiuto al comandamento della carità. Se le parole d'amore che si dicono tutti i giorni ovunque, nelle case, o per la strada, nelle chiese o nei canvegni, fossero anche solo una boccata d'aria buona, avremmo un mondo senza nuvole e di una serenità primaverile. La realtà è che si viaggia nel buio più pesto. Le parole non costruiscono pane e neppure giustizia o pace.
Dobbiamo "amare coi fatti e nella verità". Ho sempre sperimentato in tanti anni di vita tra le miserie di questa nostra società – e ne ho incontrate tante, ma proprio tante che è difficile anche solo ricordare – che davanti al fratello che soffre o per fame o per mancanza di casa, o di lavoro, o per altre mille ragioni, le parole sono accolte nella misura che sono accompagnate dai fatti. Ancora più urgente che l'amore sia nella verità. Amarci veramente non è solo donare il proprio cuore, ma donarlo nel modo giusto. Come è facile chiamare amore con i fatti anche ciò che è contro il vero bene della persona. Basta pensare ai matrimoni falliti per scuse che non sono mai scuse; a concubinati che trovano sempre ragioni che non sono ragioni; a indifferenze che sono comode vie d'uscita di fronte a difficoltà, ma diventano pesanti accuse di omissione.
Come vedete, è veramente divino il comandamento del Signore, quello di amarci, ma è pieno di insidie e di difficoltà. Ci viene in aiuto Gesu stesso con parole che sono non solo insegnamento all'amore, ma amore nei fatti e nella verità. "Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può dar frutto da se stesso se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla" (Gv 15, 1-8). La parola che usa Gesù parlando ai suoi e quindi a noi tutti, non è più e solo quella di "arnatevi come io vi ho amato"; ma è quella di "rimanete in me" e con un paragone che fa uscire gli occhi dallo stupore, "come io sono in voi". L'evangelista Marco quando descrive la chiamata degli Apostoli così definisce il loro rapporto con Gesù, o il motivo della loro elezione o scelta: "Li scelse perché restassero con Lui e per poi mandarli". Ed anche noi a volte cantiamo: "resta con noi, Signore!". Ora è non solo "rimanete con me" – e sarebbe già un fatto grandissimo: cosa c'è di più bello, di più paradisiaco di essere invitati a stare con Dio? – Ma qualcosa di infinitamente più grande: "rimanete in me, come io in voi". Qui è l'invito a "entrare" nella vita di Gesù, proprio dentro il suo mondo, al punto da fare dipendere la nostra dalla Sua, come fa il tralcio innestato sulla vite. Non so se è possibile trovare paragoni nella vita comune che dipingano e riproducano questo "rimanere in qualcuno". Forse quando due si amano veramente, come due fidanzati, due sposi, due veri amici, si fa esperienza di questo "rimanere l'uno nell'altro". Se è stupendo tra gli uomini, come non deve essere tra gli uomini e Dio?