Omelia (29-11-2009)
Il pane della domenica
Il Signore viene: vegliate e pregate

La vostra liberazione è vicina

In un romanzo intitolato Il tunnel, lo scrittore tedesco Friedrich Duerrematt (1921-1990) descriveva con fredda lucidità la morte della speranza, raccontando di un treno sovraffollato che, poco dopo la partenza, imbocca un tunnel; la percorrenza richiederebbe pochi minuti, invece diventa interminabile. Non solo, il treno acquista velocità folle e si inabissa tra sporgenze rocciose e discese che sembrano un precipitare verso il centro della terra. Il freno di emergenza è rotto; la cabina di guida è vuota. "Che cosa possiamo fare?", gridò il capotreno nel fragore delle pareti del tunnel. Un giovane "con spettrale serenità" rispose: "Niente". La vita? Per questo scrittore è un precipitare verso il baratro. Dio, se esiste, avrebbe abbandonato la cabina di guida del mondo, e l'uomo si ritrova a trascinare una esistenza senza senso, senza speranza.
Ma è davvero questo la storia: una folle, assurda corsa verso lo sfacelo totale? E il nulla sarebbe il solo approdo che ci sia concesso?

1. All'inizio dell'anno liturgico la Chiesa ci invita a misurarci con la prospettiva di Gesù sull'avvenire, quale emerge dal suo ultimo discorso pubblico, a pochi giorni dal processo e dalla morte. La visione del Signore si muove come su due piani sovrapposti e trasparenti, oscillando dalla distruzione del tempio e della città santa agli "ultimi giorni" della storia. Il Maestro ha appena parlato della devastazione di Gerusalemme, vista come la fine di un mondo, e quindi come avvenimento esemplare, segno emblematico e prologo-prefigurazione ("profezia") della fine del mondo. Quando Luca riportava queste parole del Signore, la città santa era già stata distrutta e i suoi abitanti erano stati dispersi. L'evangelista può perciò mostrare alla sua comunità come, proprio perché si erano già compiute, le parole di Cristo meritavano di essere ricordate come chiave di lettura per decifrare il "senso" - il significato e l'orientamento - del corso della storia, letta come storia della salvezza.
Per andare "oltre" l'evento della caduta di Gerusalemme, l'evangelista - alla scuola di Gesù - deve prima andarci "dietro", ricorrendo agli antichi oracoli profetici. Già Mosè aveva predetto il castigo contro l'infedeltà di Israele: "Il nemico ti assedierà in tutte le città... il Signore ti disperderà tra tutti i popoli" (Dt 28,52.64). Geremia aveva annunciato: "Mettetevi in salvo fuori Gerusalemme". E nel rotolo di Zaccaria era scritto: "Contro Gerusalemme si raduneranno tutti i popoli della terra". Così la profezia dell'Antico Testamento diventa storia - nel Nuovo Testamento e a sua volta la storia - la fine di Gerusalemme - diventa profezia del giudizio finale.
A questo punto il discorso di Gesù ritorna sui segni cosmici che accompagneranno la venuta finale del Figlio dell'uomo. Il linguaggio è "apocalittico", quello di cui ci si serve nella Bibbia per descrivere il "giorno del Signore": quando Dio viene, l'universo non può non sussultare; il cielo e la terra devono partecipare necessariamente e sensibilmente al suo trionfo. Ma ciò che conta non è questa cornice descrittiva, quanto piuttosto l'evento centrale: il Signore verrà. C'è chi sarà colto dall'angoscia e da una paura mortale; ma per i discepoli non può essere così. Le parole di Gesù, rivolte ai suoi discepoli, non inducono alla paura, anzi sono piene di speranza: "Alzatevi e levate il capo, perché la vostra liberazione è vicina". Il Figlio dell'uomo che viene su una nube con potenza e gloria grande è colui che è stato crocifisso per i nostri peccati e quindi non abbandonerà mai la strada dell'amore: egli non viene per condannare il mondo, ma per salvarlo. Dio ha per noi progetti di pace, non di sventura.

2. Dopo queste parole, l'evangelista riporta l'ultima parabola raccontata da Gesù; in realtà si tratta di un paragone brevissimo, ma quanto mai evocativo: il fico che germoglia non annuncia l'inverno, ma l'estate. Il Maestro vuole aiutare in tutti i modi i suoi discepoli a dissociare la catena di eventi tristi e terribili dalla fine del mondo e a non collegarli - come abitualmente si fa - con la venuta di Dio. Perciò ricorre al tradizionale repertorio dell'immaginario apocalittico con quelle scene sconvolgenti che a tutti gli umani vengono in mente quando si pensa alla "fine del mondo": terremoti, eclissi, alluvioni, eruzioni; e poi guerre, stragi, saccheggi, violenze. Quindi, cataclismi naturali e catastrofi sociali: in parte provocate da calamità ineluttabili, in parte dall'uomo stesso. Quando succedono cose di questo genere, si dice: è finita.
Gesù invece dice: no, queste cose succederanno sino alla fine, ma non è la fine. Non stiamo andando verso l'inverno; è la primavera: l'estate sopraggiungerà. "Quando vedrete accadere queste cose, sappiate che il Regno di Dio è vicino" (Lc 21,31). Così il "lieto messaggio" di Gesù ritorna al primo annuncio, da lui proposto all'inizio della missione e che anche i discepoli dovranno riproporre a tutti: "il Regno di Dio è vicino" (cfr. 4,43; 10,9). Il segno sicuro e inconfondibile della venuta del Figlio dell'uomo non sono le guerre, le tribolazioni, le distruzioni e la morte: il segno è l'annuncio del Regno.

3. È chiaro: Dio mantiene le sue promesse anche senza di noi. Ma se noi non avremo vegliato, se non ci saremo preparati alla venuta del Figlio di Dio, noi non potremo partecipare alla sua salvezza. Il pericolo vero è il torpore della coscienza, la sclerosi del cuore, annebbiato dalle droghe di agi e piaceri, indurito da affanni, tensioni e dispiaceri, angosciato dalla preoccupazione di non riuscire ad avere sempre di più e a godere più che si può. C'è un solo modo per rimanere desti, attenti e vigilanti: pregare. L'evangelista Luca è l'unico ad aggiungere all'esortazione di Gesù alla vigilanza anche la raccomandazione alla preghiera: "vegliate e pregate" (lett.: vegliate pregando). La preghiera purificherà i nostri occhi per riconoscere i segni dei tempi e ci farà leggere con la luce di Dio tutte le parole dritte che egli scrive anche sulle nostre tante righe storte. Anche in questo tornante della storia, in cui registriamo il crollo di tanti miti e la caduta di facili illusioni, Dio rimane nostro rifugio e nostra salvezza. Anche se dentro la Chiesa non pochi fratelli si trascinano nel lamento e nel rimpianto, l'energia di Cristo risorto continua ad irradiare coraggio, gioia e speranza.
Nulla ci può gettare nello spavento o nello sconforto: se crediamo veramente, in ogni evento, lieto, triste e anche drammatico, riusciremo a decifrare il messaggio di salvezza che esso contiene. Solo la preghiera ci farà superare la paura e ci permetterà di "comparire" (lett.: stare in piedi) davanti al Figlio dell'uomo. "Stare in piedi" è l'atteggiamento del credente, che attende senza timore l'incontro con il Salvatore; è il tipico atteggiamento dell'avvento: stiamo in piedi non per fuggire, ma per andare incontro al Signore che è già venuto, viene sempre e verrà ancora. I cieli e la terra passeranno, ma le sue parole non passeranno affatto (cfr. Lc 21,33). E le sue ultime parole sono state: "Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo" (Mt 28,20). Tutti i giorni, anche oggi, la parola si compie. Se ogni giorno fonderemo la nostra vita sulla sua parola, non affonderemo mai nelle sabbie mobili di "dottrine diverse e strane" (Eb 13,8s).
E così anche oggi l'e-vento decisivo del primo Natale si fa av-vento, venuta del Signore. E il 25 dicembre non si ridurrà a pura, nostalgica commemorazione di un avvenimento passato. Ma sarà un altro anticipo della sua venuta definitiva.

Commento di mons. Francesco Lambiasi
tratto da "Il pane della Domenica. Meditazioni sui vangeli festivi"
Ave, Roma 2009