Omelia (13-12-2009)
Il pane della domenica
Il Signore viene: rallegratevi!

E noi che dobbiamo fare?

C'è una domanda che rimbalza pari pari per ben tre volte nel giro dei pochi versetti di questo vangelo: "Che dobbiamo fare?". È una domanda che registriamo tante volte dentro e fuori di noi, quando l'angoscia ci annebbia la vista e ci fa perdere la strada, e allora ci chiediamo smarriti: ma, insomma, che dobbiamo fare? Altre volte questa domanda assume il tono di una ricerca aperta e disponibile: pensiamo, per esempio, a due giovani che decidono di intraprendere il cammino dell'amore che li porterà al matrimonio cristiano e si domandano sinceramente e generosamente: e adesso che dobbiamo fare? Forse, più spesso, questa stessa domanda risuona nelle nostre famiglie e diventa l'esternazione di un disagio nel dialogo tra le generazioni. I giovani di una volta rischiavano una vita piena di precetti, costretta da norme rigide e inflessibili. Per ogni problema c'era una regola, per ogni situazione era già scritto quello che si doveva fare. Esagerando un po', forse si potrebbe dire che un tempo si correva il pericolo di vivere una disciplina senza amore; i giovani di oggi rischiano il contrario. E i genitori si domandano angustiati: che cosa dobbiamo fare ancora con questi figli?

1. Che cosa dobbiamo fare? Lo chiedono al Battista le folle, indistintamente; lo domandano i pubblicani, gli odiatissimi esattori delle tasse; e infine, anche i soldati.
La risposta di Giovanni alla prima domanda è nella linea della condivisione del cibo e del vestito: "Chi ha due tuniche, ne dia una a chi non ne ha; e chi ha da mangiare, faccia altrettanto". Ai pubblicani Giovanni raccomanda, nel riscuotere le tasse, di non estorcere neanche un soldo in più. Ai soldati, oltre questo, il Battista domanda la sobrietà: "contentatevi delle vostre paghe".
Tre risposte per un identico programma di vita, fatto di doveri elementari, di impegni semplici e pratici, di comportamenti possibili per le situazioni particolari delle diverse categorie di persone. Sembra addirittura una morale del minimo, e in effetti un po' lo è, almeno se la si misura con quella, ben più alta ed esigente, che richiederà Gesù dai suoi discepoli (Lc 6,29; 12,33). Eppure la risposta di Giovanni non verrà oscurata da quella del Nazareno, ma conserva ancora oggi la sua attualità e si segnala proprio per il suo carattere basilare e quanto mai concreto. Del resto, siamo proprio sicuri che essa non ci riguardi? Ad esempio, prima di vedere quanto del nostro denaro dobbiamo dare in beneficenza, possiamo dire di avere assolto al nostro dovere di pagare le tasse?
Che cosa dobbiamo fare? Questa domanda sta molto a cuore all'evangelista Luca, il quale la riporta anche all'inizio del suo secondo volume, al termine del grande discorso tenuto da Pietro il giorno di Pentecoste, quando i presenti, all'udire il messaggio del capo degli apostoli, si sentirono trafiggere il cuore e chiesero a Pietro e agli altri apostoli: "Che cosa dobbiamo fare, fratelli?". La risposta di Pietro è analoga a quella del Precursore: occorre convertirsi e farsi battezzare (cfr. At 2,37-38). L'appello alla conversione è pertanto il messaggio perenne della Chiesa.

2. Che cosa dobbiamo fare? Questa domanda la sentiamo nostra, e ritorna puntuale negli incroci della vita. La risposta che spesso ci sentiamo cantilenare in tutti i toni dalle varie "emittenti" pubbliche e private - non solo della TV, ovviamente - è fatta di ricette tutte condite con i verbi del narcisismo dilagante: sistemarsi, realizzarsi, arrangiarsi, divertirsi. Ma queste formule spacciate come miracolose danno poi la felicità che promettono?
La liturgia di oggi ci ripete con le parole spicce e secche del Battista: occorre convertirsi, bisogna cambiare direzione di marcia, è urgente intraprendere la strada della giustizia, della solidarietà, della sobrietà: sono i "fondamentali" della vita, i valori imprescindibili e i doveri irrinunciabili di una esistenza che voglia dirsi ed essere genuinamente umana, e costituiscono l'indispensabile preparazione al vangelo, l'introduzione a quel rinnovamento capitale, quale sarà portato a compimento da Cristo Signore.
Come diventerebbe il mondo se chi ha due vestiti ne desse uno a chi non ne ha? Ecco, ci grida Giovanni: comincia con il trattare il prossimo come un fratello: ha freddo anche lui come te, dagli uno dei tuoi due cappotti; non fargli violenza, come non vuoi sia fatta a te; non pensare solo a te e ai tuoi bisogni, anzi metti l'altro sempre prima di te. Prima della tua, metti la sua pace, e troverai anche tu la tua. Non dire mai, come Caino: sono forse io il custode di mio fratello?
Ma fare giustizia soltanto, al cristiano, non basta, come non basta il solo impegno per la promozione umana: quando avremo fatto uguaglianza tra i pochi che hanno troppo e i molti che hanno troppo poco, non avremo ancora realizzato la "giustizia superiore" a quella degli scribi e dei farisei, come Gesù esigerà dai suoi discepoli. Solo allora il Signore potrà far sorgere un mondo nuovo, sulle macerie di quello vecchio.

3. Convertitevi! È il primo verbo della buona novella annunciata da Giovanni. E oggi la liturgia di questa terza domenica di Avvento ci aiuta a riscoprire una dimensione particolare della conversione, che per un verso ne è misura imparziale e sicura, per l'altro ne è frutto saporoso e immancabile: è la gioia. "Gioisci, figlia di Sion!", abbiamo ascoltato nella 1ª lettura, tratta dal libro di Sofonia, un appassionato invito alla fiducia e alla letizia; poi, al salmo responsoriale abbiamo ripetuto: "Alleluia: viene in mezzo a noi il Dio della gioia". E abbiamo ascoltato anche l'appello insistito di Paolo: "Rallegratevi nel Signore, sempre, rallegratevi!".
Oggi ci vuole un bel coraggio a parlare di gioia: il mondo è assillato da tanti problemi, il futuro talmente gravato da tante incognite da ridurre il presente a incubazione della paura. Eppure rimane vero quanto affermava Chesterton: la gioia è "il segreto gigantesco del cristiano".
I brani della parola del Signore oggi ci aiutano a cogliere la radice segreta della gioia e insieme la sua linfa vitale. La radice è data dalla certezza irrefragabile: il Signore viene, il Signore è vicino, il Signore è in mezzo a te, Gerusalemme. E quando il Signore si rende presente, la gioia fiorisce come d'incanto. Noi non siamo nella gioia perché le cose ci vanno bene, ma perché Dio Padre ci vuole bene, e il segno inconfutabile di questo amore è che ci manda il suo bene più caro, il suo proprio Figlio Gesù. Non ne risulta certo l'invito a una gioia spensierata e facilona: c'è nello stesso tempo, come abbiamo visto, un appello accorato alla conversione, che non avviene mai senza dolorose amputazioni. Ma non è la croce per la croce: è la croce per la vita. È il travaglio del parto, non il rantolo dell'agonia.
E paradossalmente è proprio la resistenza nella prova, sopportata con fede, la linfa della gioia. A un mondo che confonde la felicità con il piacere, la fede non ha paura di annunciare che anche nella prova è possibile la perfetta letizia. Il piacere - parliamo ovviamente di quello egoistico - è un magro surrogato che non ha mai appagato il cuore di nessuno, e anzi, quando viene perseguito per se stesso, inevitabilmente diventa droga che produce qualche breve brivido di euforia e poi fa sprofondare nelle sabbie mobili dell'angoscia.
Coraggio, ci dice oggi la liturgia: ecco, viene in mezzo a noi il Dio della gioia!

Commento di mons. Francesco Lambiasi
tratto da "Il pane della Domenica. Meditazioni sui vangeli festivi"
Ave, Roma 2009