Omelia (20-12-2009)
Il pane della domenica
Il Signore viene: intonate il Magnificat!

A che debbo che la madre del mio Signore venga a me?

"Buonismo": è termine di recente introduzione nel nostro vocabolario e di larga diffusione nel linguaggio giornalistico; starebbe a indicare un atteggiamento bonario e tollerante, e, come tutte le parole che finiscono in "ismo", sottintende qualcosa di eccessivo e di inopportuno. Il neologismo esprime grosso modo quello che una volta si chiamava sentimentalismo.
Ecco, il Natale non è la festa del buonismo. Non si può ridurre a una sagra delle sdolcinature, delle stelline e delle strenne, per spalmare un po' di tenerume su emozioni a buon mercato, su tradizioni prive d'anima e abitudini superficiali che poi si sa dove vanno a finire: in quella "grande abbuffata" che ci permette di dimenticare per qualche ora la pesante monotonia della vita, magari mettendoci l'anima in pace con qualche panino ai barboni. E poi tutto torna come prima: "Anche con Cristo, e sono venti secoli - scriveva Salvatore Quasimodo, premio Nobel 1959 - il fratello si scaglia sul fratello. / Ma c'è chi ascolta il pianto del Bambino / che morirà poi in croce fra due ladri?". Celebrare il Natale non vuol dire preparare solo un bel presepe con i pastori commossi, con i magi in lunghe vesti, con il bue e l'asinello di colore azzurro. Vuol dire soprattutto "ascoltare il pianto del Bambino" e la sofferenza di tanti suoi fratelli ignorati, calpestati e persino derisi. Ma per questo ci occorre - come ci ricorda il vangelo di questa ultima domenica di Avvento - innanzitutto una buona dose di stupore.

1. È lo stupore che risuona nelle parole di Elisabetta al saluto di Maria: "A che debbo che la madre del mio Signore venga a me?". Questo stupore riecheggia - e con note ancora più acute - nel cantico di lode della Vergine, di cui il brano evangelico ci riporta solo le parole iniziali, quasi a consegnarci una sorta di antifona che dovrà fare da cantus firmus per tutto il tempo di Natale (e non solo!): "L'anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore".
È lo stupore che afferra chi percepisce la novità stupefacente dei doni di Dio e del Dio dei doni. È il Signore infatti il grande donatore: colui che chiama a una maternità inattesa la donna anziana e sterile e che, dell'umile figlia di Sion, fa la Madre del Santo, il Figlio dell'Altissimo. Nello stupore delle due donne che si incontrano sulle colline di Giudea risuona l'incanto per il dono dei doni: la santa alleanza, il grande, perfetto abbraccio che unisce Dio e l'uomo, secondo la promessa fatta ai padri, ad Abramo e alla sua discendenza, per sempre.
È lo stupore dei poveri che sono contenti di Dio, e non pretendono prove èclatanti per credere, ma sanno vedere i segni tenui eppure tenaci della sua presenza sempre così provvida e amorevole. Solo con il cuore di Maria, l'umile, povera serva del Signore, è possibile esultare e rallegrarsi per il grande dono di Dio e per la sua imprevedibile sorpresa. Perché a Natale Dio non è solo il benevolo, munifico donatore; Dio è anche il regalo incredibile e immeritato che ci viene fatto. A Natale Dio dona Dio; donando il suo Figlio, il suo "tesoro" più caro, Dio Padre ci dona tutto se stesso.
È lo stupore di una fede umile e semplice, di un cuore di bimbo. Scriveva il poeta francese Paul Claudel, sbigottito per "lo stato di annientamento di questo Dio e Signore, sul quale Mosè non avrebbe potuto alzare lo sguardo senza morire". Perché questo sconcertante Natale? La risposta non meno sconcertante, il poeta la sintetizza così: "E si mette nudo tra le nostre braccia, questo fragile bambino dal quale s. Paolo dice venire ogni paternità. Egli non comanda più. Domanda. Ci fa sapere che ha bisogno di noi, che la sua debole mano cerca come può il nostro cuore. Egli cerca di risvegliare in noi una parentela indispensabile, irresistibile. Si direbbe che abbia dimenticato di essere Dio, e che solo sulle nostre labbra voglia farselo dire. Si dà a pesare. C'è un Dio, tra le braccia della sua creatura che si rende conto di quel che Egli pesi. E io, uomo, io sostengo. Io lo tengo, lo sostengo, lo contengo: nulla c'è in Lui che mi sfugga".

2. Lo stupore della fede è il risultato di uno sguardo contemplante, ma per contemplare occorrono occhi puri. E se per Natale facessimo un esame della vista del cuore? Ad esempio, riusciamo a soffermarci sui luoghi dello stupore?
Il primo luogo è l'altro: vedo ogni uomo come mio fratello, perché da quando è accaduto il Natale, ogni volto porta impresse le sembianze di Lui, soprattutto quando è il volto del "povero", perché da povero Dio è entrato nel mondo e dai poveri, in modo singolare, si è lasciato avvicinare? Un giorno un maestro chiese ai suoi discepoli: "Mi sapete dire qual è il momento esatto in cui finisce il buio della notte e comincia il chiarore del giorno?". Un discepolo provò a rispondere: "È quando, guardando in lontananza riesco a distinguere un melo da un ciliegio". "No - rispose il maestro - c'è un momento ancora più preciso". "Allora - rispose un altro - è quando guardando in lontananza, riesco a distinguere un cane da una pecora". "No - commentò il maestro - il buio della notte finisce quando, guardando a distanza, riesco a vedere un povero, e lo riconosco come mio fratello. Altrimenti nel nostro cuore sarà sempre notte e non si farà mai giorno".
Un altro luogo in cui, solo se guardiamo con fede, proviamo stupore è la storia. Tante volte crediamo di vederla per il verso giusto e invece rischiamo di leggerla alla rovescia. Succede quando essa ci sembra determinata dall'economia di mercato, regolata da piazza Affari, dominata dai potenti di turno. Il Dio del Natale è invece un Dio che "scombina le carte": come canta Maria nel Magnificat, Dio è il Signore che abbatte i potenti, umilia i ricchi in questo mondo, per scegliere i poveri e renderli partecipi del suo regno.
Un terzo "luogo dello stupore" è la Chiesa: guardarla con lo stupore della fede significa non rassegnarsi a considerarla una semplice istituzione religiosa, ma come una Madre che, pur tra macchie e rughe, lascia trasparire i lineamenti della Sposa purificata e amata da Cristo Signore. Una Chiesa che sa leggere i messaggi che Dio continuamente le invia, capace di riconoscere i molti segni di amore fedele che il Signore ancora dispone nella sua stessa vita e, nella libertà dello Spirito, anche fuori di essa. Una Chiesa per la quale il Signore Gesù non sarà mai un possesso da difendere gelosamente, ma, sempre, colui che le viene incontro e che ella sa attendere con fiducia e gioia, dando voce alla speranza del mondo: "Vieni, Signore Gesù!".
Il Signore viene: se lo riconosceremo come nel suo sconvolgimento lo scoprì Elisabetta, se ci apriremo al dono di Dio come Maria, allora canteremo anche noi il Magnificat, e la nostra vita sfocerà finalmente nella luce.

Commento di mons. Francesco Lambiasi
tratto da "Il pane della Domenica. Meditazioni sui vangeli festivi"
Ave, Roma 2009