Omelia (22-11-2009) |
Marco Pedron |
Tu lo dici, io sono re È l'ultima domenica dell'anno liturgico. Domenica prossima sarà la prima di Avvento e cominceremo un nuovo vangelo, quello di Lc. Un altro anno si chiude perché un altro se ne riapra. L'anno scolastico si chiude a Giugno; l'anno del calendario, dell'economia si chiude il 31 dicembre; l'anno della chiesa si chiude oggi. Anno vuol dire ruota. L'anno è una ruota, un cerchio, e proprio da questo si dice "la ruota della fortuna". La ruota (come il cerchio) non ha né inizio né fine. Una ruota ricomincia sempre, riparte sempre. La ruota ripropone sempre le solite cose: ciò che è alto diventa basso; ma poi ciò che è basso ridiventa alto. Gli antichi conoscevano anche l'ourobos, il serpente che si morde, che si mangia la coda. È l'eterno ricominciare di ogni cosa, dove non c'è fine né inizio. Gli antichi osservavano il giorno che finiva, che si rabbuiava fino a diventare notte; ma poi un altro giorno si apriva e la luce ritornava; ma poi tornava di nuovo il buio e la notte. E così ogni giorno. Così anche noi in certi momenti viviamo di più il ricevere (ad es. quando siamo bambini) mentre in altri il donare (quando noi abbiamo figli); in certi giorni viviamo di più l'unione, la fusione, l'intimità con le persone e con il partner, mentre in altri l'autonomia, il distacco e il centrarsi su di sé; in certi giorni si è più aggressivi in altri più teneri; in certi giorni si ha più bisogno di stare da soli in altri insieme. I momenti ciclicamente si ripetono, così che si ha la sensazione di essere sempre lì, di non andare avanti, di fare sempre le stesse cose. Allora ci si chiede: "Ma c'è un senso a tutto quello che faccio?". Gli uomini primitivi guardavano le stagioni che si ripetevano, ogni anno sempre alla stessa maniera. Guardavano il cielo che con cicli più o meno lunghi riproponeva la luna e le stelle sempre allo stesso modo. Così noi: quando andiamo a scuola o al lavoro si ripetono sempre le stesse cose, le stesse mansioni, le stesse persone, gli stessi problemi. Ciclicamente ritorna la sofferenza e i conflitti; ciclicamente ritornano le paure e anche ciò che uno credeva aver superato. Così si rischia di cadere nell'abitudine, nella routine: non c'è più novità, non c'è più entusiasmo, non c'è più spazio per la creatività e per la sorpresa. Gli uomini primitivi guardando la vita degli uomini (nascere, crescere, sposarsi, avere figli, invecchiare, morire) dicevano: "E' un ciclo che si ripete per tutti". Così noi, accorgendoci che la vita è simile per tutti, abbiamo un senso di frustrazione e ci chiediamo: "Ma sì, io o un altro, non è in fin dei conti la stessa cosa? Dov'è la differenza fra me e un altro? Dov'è la mia specificità per cui non è lo stesso che sia io e non un altro?". La vita è un ciclo dove si ripetono e si affrontano le stesse cose per cui ci viene da dire: "Siamo sempre qui!". Se la vita è solo un ripetersi delle solite cose allora si ha la sensazione di non vivere, di essere in mano ad un fato, ad un destino, che ti ripropone sempre le solite cose; se la vita è così, allora è una noia infinita dove tutto è già deciso. È la noia di milioni di persone che ogni mattina si alzano e si dicono: "Un altro giorno!?". E sentono dentro che sarà come ieri e come l'altro ieri. Vivere così è frustrante. Ma ruota (e quindi anno) indica anche un movimento. La ruota non solo gira e dopo ogni giro si ritrova al punto di partenza, ma nel suo girare fa strada, cammina, è in movimento, va avanti. Anche quest'anno verrà Natale: ad uno sguardo superficiale è un altro Natale. Ne abbiamo già fatto tanti altri! Con mia moglie sono sposato da vent'anni e mi viene spontaneo dire: "E' sempre la stessa!". I miei figli sono sempre quelli e mi viene ovvio dire: "Ma sì, li conosco benissimo". Eppure, se guardo più in profondità, io non sono sempre lo stesso, loro non sono sempre li stessi e il nostro rapporto non è sempre lo stesso. Solo all'apparenza sembra uguale, ma in realtà, la vita và, progredisce. Anche se gira sempre alla stessa maniera, la ruota della vita mi sta portando da qualche parte. Allora io mi devo fermare e devo pregare così: "Signore è passato un altro anno di vita. Un anno sono 365 giorni, 8.760 ore, 525.600 minuti. In quest'anno ho incontrato persone, vissuto cambiamenti, mi sono arrabbiato, sono stato triste e felice; ho pianto e mi sono entusiasmato, ho costruito, ho lavorato, ho parlato, ci sono stati momenti dove ho sentito la bellezza di esistere e altri dove ho vissuto l'inutilità, la difficoltà, la non voglia di vivere e tanto altro". Ogni anno succedono cose, eventi e situazioni simili. I giorni, pur diversi uno dall'altro, sembrano alla fin fine sempre simili, uguali, gli stessi. Così la vita, così gli anni. Il grande rischio, Signore, è che io viva tante cose ma rimanga sempre lo stesso, uguale, indifferente, impermeabile, che fuori succedano tante cose ma che non m'intacchino, che io rimanga sempre uguale. Allora i giorni sono inutili". Eppure Tu da qualche parte mi stai portano o per lo meno vorresti portarmi da qualche parte. Nel mio solito andare io sto compiendo un cammino: dove sta andando? Stop! Fermarsi! Ogni mattina ti alzi, fai colazione in velocità, porti i ragazzi a scuola, corri al lavoro; qui problemi, difficoltà, pranzo veloce e poi di nuovo lavoro; torni a casa e ci sono i lavori, i figli che richiedono tempo, gli impegni, le urgenze tecniche ed economiche. Non vedi l'ora di andare a letto, ma sai che domani mattina dovrai rialzarti ancora perché c'è di nuovo da alzarsi, far colazione... Stop! Fermarsi! In questo frenetico correre e girare, dove sto andando? Sto girando a vuoto? Perché tutto potrebbe muoversi ma io potrei rimanere fermo, sempre quello. Un uomo ha quarant'anni; è dirigente d'azienda e tutti vorrebbero un lavoro come il suo. Ma lui ogni mattina si chiede: "Ma io, che ci sto a fare qua?". È un uomo che sta girando a vuoto. Ogni mattina ti alzi e preghi con i salmi. All'inizio ti da energia, ma se non c'è un divenire nel tuo solito fare, può diventare noioso, o lo puoi fare per abitudine o per senso del dovere così da non sentirti in colpa. La gente è frustrata perché non trova movimento, senso, un progredire in quello che fa. Allora ha la sensazione non solo di fare sempre le solite cose, ma di essere sempre uguale. La ruota (l'anno) gira: dove stai andando? Ti stai movendo o fai sempre le solite cose? Finché la ruota gira, tu sei sempre lo stesso? Perché se tu sei sempre lo stesso, allora sei morto tanto tempo fa. Tutto ciò che succede ha un duplice livello: quello dell'evento e quello della fede. L'evento è ciò che succede: faccio un incidente, incontro una persona interessante, ho una difficoltà, sono in confusione, mi costruisco una casa, cambio lavoro, mio figlio cresce. Ma poi c'è un livello più profondo (è il livello di significato, fede) dove ciò che vivo non solo mi procura emozioni e sentimenti, rabbia e felicità, ma entrandomi nell'anima mi plasma, mi cambia, mi insegna, e mi indica ciò che Dio vuole da me e per me, mi conduce nel mistero della Vita. Se quello che ci succede non ci insegna niente sulla vita, non ci fa più profondi sulla vita, più saggi, più larghi di vedute e di cuore, allora non c'è un senso alla vita; allora un fatto o l'altro è uguale. Allora sono veramente un di-sperato in balia di semplici successioni. Molti adulti sono rimasti dei bambini che non vanno avanti ma girano sempre attorno a sé, ai soliti discorsi e alle solite quattro idee (non hanno imparato la saggezza del vivere): giocano alle slot machine, fanno discorsi da bar e da strapazzo, non sanno fare neanche un po' di silenzio, non sanno ascoltare gli altri senza attaccarli o giudicarli, non sanno vivere neanche un minuto da soli o senza il partner, non sanno fare qualcosa di gratuito, non sanno fare qualcosa con serenità e felicità. Sono in vita ma non stanno vivendo. Vivere non è solo respirare, ma imparare, far sì che quello che ci succede ci formi e ci plasmi, e che il nostro vivere ci porti da qualche parte. Il vangelo di oggi racconta un dialogo tra re: Pilato e Gesù. Siamo nella Passione. Gesù è già stato preso e si trova nel pretorio davanti a Pilato. Pilato è "il re" della Palestina. Pilato, dicono gli storici, era un governatore brutale. Faceva uccidere e crocifiggere così tante persone che ad un certo punto Roma dovette richiamarlo! Pilato ne ha visti tanti di pazzi ed esaltati, ma quest'uomo è davvero affascinante: si definisce re! A lui non interessa affatto la questione di Gesù: gli hanno rifilato questo problema da risolvere, dal quale cerca di uscirne senza troppi grattacapi. Il tutto è di irrisoria importanza; l'unica sua attenzione è di non andare al alterare i già delicati equilibri diplomatici con i focosi ebrei. Nelle scene (sette) della Passione, infatti, Pilato continua ad entrare e uscire. Da una parte Pilato è attratto da Gesù (entra), ne sente la verità e la bellezza. Ma dall'altra teme (esce) i Giudei; teme le conseguenze e di perdere l'immagine e il potere che ha. È il tormento di questo uomo, il dubbio, l'inquietudine: è indeciso. Senti la bellezza di una strada, ma sai che seguirla vuol dire perdere le tue sicurezze. Che si fa? Senti la verità di una cosa, ma sai che aderirvi è diventare impopolari. Che si fa? Senti la passione per qualcosa di "tuo", ma seguirlo vorrebbe dire cambiare vita. Che si fa? Senti che dovresti aprirti su certe questioni, ma temi di soffrire o vergognarti. Che si fa? Senti che dovresti porre dei limiti, porre dei paletti, ma temi le conseguenze. Che si fa? Il versetto successivo a questo vangelo (18,38) dice che Pilato "se ne uscì" dalla situazione. Preferì non approfondire la questione; preferì rimanere fuori, non farsi coinvolgere. Aveva troppo da perdere. Se ti bastano le carrube dei porci (Lc 15,15) e non cerchi, non desideri qualcosa di più io, non ci posso fare niente. Se ti bastano l'auto, la tv, la macchina, le sigarette e non cerchi qualcosa di più, io non ci posso fare niente. Se ti basta vivacchiare, mangiare e bere, e non senti il richiamo di qualcos'altro; oppure se non senti la voce che ti invita ad immergerti in questa vita e a desiderare di più, io non ci posso fare niente. Se tu ti accontenti e non desideri qualcosa di più grande, io non ci posso fare niente. Da ciò che desideri ti dirò quanto vali come uomo. Se devo farti un augurio, ti auguro come fa sempre don Oreste Benzi: "Che Dio ti tormenti, che ti perseguiti, che non ti lasci stare, che non ti permetta di risolvere banalmente la questione, di lasciarti vincere dalla paura, che non ti permetta di addormentarti o di raccontartela". Pilato chiede a Gesù: "Sei tu il re dei Giudei?" (18,33). La domanda sembra una presa in giro, sembra ironica: "Io sono il re della Palestina. Che re sei tu?". Pilato pensa al ruolo: "Sei un padre, una madre, un avvocato, uno importante, un dottore, uno studiato...". Pilato vive su di un mondo: re è chi ha potere. Ma Gesù vive su di un altro mondo! Pilato non immagina neppure di cosa stia parlando Gesù. A certe persone non parlare neppure di vita, verità, di trovare un senso, di Dio, del fuoco sacro, della libertà; ti ascolteranno solo se parli di soldi, di case, d'investire, di guadagnare, di produrre, di lavorare, di tasse e di governo. Gesù gli risponde: "Dici questo da te oppure altri te lo hanno detto sul mio conto'" (18,34). Pilato crede di poter salvare Gesù; ma è Gesù che invece tenta di salvare Pilato. Gesù tenta il modo di far uscire Pilato dalla spirale di paura in cui si trova. Vorrebbe che Pilato si ascoltasse, che percepisse la sua coscienza. Vorrebbe che non ragionasse mosso dalla paura e da ciò che provocherebbe una scelta libera. Vorrebbe che almeno una volta Pilato fosse davvero sovrano della sua vita. Ma non è così. "La tua gente e i sommi sacerdoti ti hanno consegnato a me..." (18,35). Pilato, re della Palestina, è ancora asservito e schiavo dell'opinione pubblica e della ragion politica. E tu di chi sei schiavo? Pilato gli risponde in maniera banale, distratta, superficiale: "Sono forse io Giudeo? La tua gente e i sommi sacerdoti ti hanno consegnato a me; che cos'hai fatto?" (18,35). Gesù aveva tentato di riportare Pilato dentro di sé; ma Pilato scappa e si rifà a quello che dicono e che fanno gli altri. Pilato non riesce a guardarsi dentro, non riesce a stare con sé, a porsi domande vere, a fermarsi. Pilato si toglie fuori dalla questione: "Non mi riguarda, io non sono giudeo". Nel versetto successivo di questo vangelo dirà: "Che cos'è la verità?" (18,38). Come a dire: "Tutto è relativo, non esiste nessuna verità, non serve cercarla". Altrove se ne laverà le mani (Mt 27,24). Se si è testimoni della verità (18,37), invece, non si può più stare tranquilli. Allora bisogna cercare; allora bisogna aprire gli occhi e far cadere le nostre false illusioni sulle quali appoggiamo la nostra vita; allora ci accorgiamo che "la verità fa male"; allora ci accorgiamo che la verità ci mostra una realtà che non conoscevamo; allora ci fa riaffiorare emozioni e sentimenti segreti e nascosti perché pericolosi. Non esiste l'amore: esistono persone che amano. Non esiste la libertà: esistono persone che si liberano, liberate. Non esiste la verità: esistono persone vere, autentiche. Solo Lui è l'Amore, la Verità, la Libertà; Se vuoi tutto questo devi avere il coraggio di metterti davanti allo specchio e di vederti per quello che sei, senza scappare, senza sfuggirti, senza cercare di "raccontartela". Pilato se ne va; si sottrae alla questione, esce. E questo è il grande rischio per molti: trovare soluzioni facili, veloci, uscire dalle questioni velocemente, evitarle, risolverle con la violenza fisica o verbale, non rimanerci. Il figlio spacca il setto nasale ad un compagno a scuola. Quando torna a casa il papà lo picchia perché queste cose non si devono fare. Chissà dove ha imparato il figlio tutta questa violenza!? Se non comprendi il suo linguaggio (c'è una difficoltà e lui la risolve con i pugni perché non sa come altro risolverla) e ti fermi in superficie, non imparerà mai. "Mamma, mi fa male la pancia", dice la ragazza di nove anni ogni mattina prima di andare a scuola. "Tu ci vai e non fare piagnistei", risponde la mamma. Forse ti sta dicendo: "Se tu mi accompagnassi a scuola forse il mal di pancia mi passerebbe...". Cioè: "Ho bisogno di te, che mi aiuti, che mi stai vicino". Mio figlio ha gli amici immaginari e ci fa discorsi per ore e ore. Non essere superficiale dicendoti: "E che male c'è? Tutti i bambini hanno gli amici-angeli immaginari". Leggi dentro: "Se avesse degli amici reali forse non avrebbe bisogno di quelli immaginari; se si sentisse bene nel suo mondo non dovrebbe crearsene un altro, non ti pare!". Mio figlio si fa la pipì a letto: "Gliene dico sempre quattro; ho provato con le buone e con le cattive, ma niente da fare!; l'ho messo perfino in castigo, ma non riesco a farlo cambiare; sembra che me lo faccia a posta!". Leggi dietro, dentro: qual è il disagio affettivo che soffre? Perché si vendica così? E Gesù risponderà: "Il mio regno non è di questo mondo..."(18,36). Gesù e Pilato non si possono incontrare, perché viaggiano (e parlano) su due piani diversi. Per Pilato regno vuol dire esercito, armi, potenza e territori. Per Gesù regno vuol dire verità, avere potere su di sé, potersi permettere di essere liberi, di amare, di esprimere ciò che si vive, di non essere in balia degli altri e avere come unico re, autorità, Dio. A volte molti dei nostri discorsi sono così: viaggiamo su due piani diversi e non ci si può incontrare se si è su due binari diversi. "Non sono felice!". "Ma cosa vuoi di più dalla vita? Non ti manca niente, hai tutto! Sapessi come ho vissuto io!". Uno parla dell'amore, dell'affetto, della presenza genitoriale; l'altro "per tutto" intende i soldi, il lavoro, potersi permettere il motorino o i soldi per la pizza. Tra fidanzati: "Ti amo". Solo che lui con questa frase la vuole portare a letto; lei lo vuole sposare. "Lo dico per il tuo bene": la madre cerca di consigliare bene suo figlio; lui si sente sempre comandato. Il papà si lamenta: "Siamo sempre senza soldi!". Il figlio di cinque anni gli dice: "Vai a comprarli al supermercato!". Il papà lo sente come una presa in giro; per il figlio è un gioco, un momento di complicità. Quando tuo figlio torna da scuola la prima domanda è: "Come è andata?". Per te è: "Mi interessa sapere cosa ti è successo". Ma lui dice dentro di sé: "Ancora domande? Ancora interrogazioni? Ma lasciatemi un po' in pace, per favore!". Pilato allora gli risponde: "Dunque tu sei re?" (18,37). Dentro di sé deve aver sorriso: "Ma guardati!: senza esercito, senza soldati, senza appoggi politici: dove vuoi andare? Sei qui davanti a me, ti posso uccidere o salvare e tu ti dichiari re? Ma ti rendi conto? Ma ti ascolti? Guardati!: sei incatenato, tutti ti odiano, tutti non vedono l'ora di metterti in croce (e dico in croce!!!) e tu ti proclami re davanti all'unico che tutto sommato ti può e vuole salvarti? Sei proprio senza umiltà!". E Gesù risponderà: "Tu lo dici; io sono re. Per questo sono nato e per questo sono venuto al mondo: per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità ascolta la mia voce" (18,37). Pilato si crede re. Ha soldi, terre, potere; ha le conoscenze giuste, gli amici "buoni", le armi e i soldati, e se qualcuno alza la voce lui non ha problemi "a fargli chiudergli la bocca". Si crede re, ma deve condannare un uomo che ritiene innocente. Non può deludere la piazza! Si credere libero, ma deve accettare contro il suo volere, per la "ragione di stato" quello che altri vogliono. Si crede sicuro di sé, ma non sapendo come uscirne se ne laverà le mani. "Chi è, allora, il vero re?", si chiede Giovanni. E la risposta è ovvia, ma non certo appariscente o visibile agli occhi umani: "Gesù!". In croce, sopra la sua testa è "apposta la scritta della sua condanna: Costui è Gesù, il Re dei Giudei" (Mt 27,37). La gente si fa beffe di lui come re: "Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso" (Lc 23,37). Per i Romani il titolo di re è motivo per appendere Gesù ad una croce; per i Giudei è pretesto per schernirlo. Gesù non corrisponde alla loro idea di re. La croce mette in dubbio il loro modo di intendere l'essere re. Gesù è re in modo diverso da quello che i Giudei si aspettavano. Gesù è re perché nel suo regno regna lui. Nel regno della sua vita e della sua anima, lui è al comando, lui è il re, lui decide, lui comanda. Non ci sono altre forze dentro che possano batterlo. Lui le tiene soggiogate e sa come farsi obbedire. I nemici e le forze ostili esistono dentro di lui. I suoi avversari sono i nemici di ogni uomo: paura, dubbio, disperazione, angoscia, odio, rabbia, dolore, vergogna, aggressività, male. Nessuno di questi, tuttavia, domina nel suo regno, perché lui è più forte di tutti loro. Nel suo regno domina lui: lui è il signore (dominus=signore), il re della sua vita. Gesù è veramente l'Uomo, il Signore della Vita. E Pilato inconsciamente lo rivelerà a tutti: "Ecco l'uomo" (Gv 19,5). Come posso dirmi re, uomo, quando la paura di cosa dirà anche un parente mi determina? Come posso dirmi re, uomo, quando non riesco a sostenere le emozioni che provo? Come posso dirmi re, uomo, quando scarico la rabbia su chi mi sta sotto o vicino? Come posso dirmi re, uomo, quando non riesco a disciplinare i miei comportamenti? Come posso dirmi re, uomo, quando agisco in maniera automatica facendo ciò che non voglio? Come posso dirmi re, uomo, quando tutti mi fanno fare quello che vogliono? Come posso dirmi sovrano della mia vita quando per paura mento a me stesso e mi tengo lontano dalla verità? Ma chi comanda nel mio regno? Chi è il re? Una canzone di una volta che diceva: "Qui comando io e questa è casa mia". Già, chi comanda a casa tua? Tu sei il re della tua casa? Ne sei il sovrano? Sei tu che guidi la tua vita o chi altro lo fa per te? La nostra vita è tutto il nostro regno. Spesso tentiamo di di-ri-gere o di re-ggere la vita degli altri, ma l'unica su cui abbiamo potere è la nostra. Sovente, però, il nostro regno è in mano ad altre forze. Per me, allora, essere re è avere in mano la mia vita, comandarla, indirizzarla e decidere io in libertà e secondo verità. A casa mia voglio comandare io. Voglio essere il signore della mia vita. Per me è re la donna sposata che, vinta la vergogna, racconta della sua storia con un altro uomo e dell'averlo lasciato solo quando stava per morire, senza neppure salutarlo o telefonargli. Re è il coraggio di tirare fuori una verità così dura e un senso di colpa così grande. Per me re è la donna che nonostante la vergogna terribile, quella che si attacca al corpo e che non riesci più a staccartela, e i fiumi di lacrime, racconta degli abusi ripetuti di un suo familiare. Re è il coraggio di non farsi determinare dal passato. Per me re è quel prete che, personaggio scomodo perché chiamava le cose con il vero nome, è stato emarginato dalla fraternità sacerdotale. Quando gli è stato detto: "O tu non dici più queste cose o noi ti tagliamo fuori" lui non si è tirato indietro. Re è non farsi paralizzare dalla paura del giudizio e dell'isolamento. C'è una storia che racconta che una ragazza in un villaggio di pescatori restò incinta. I suoi genitori la picchiarono finché non confessò chi era il padre: "E' stato il maestro zen che vive nel tempio fuori dal villaggio". I suoi genitori e tutti gli abitanti del villaggio si indignarono. Una volta nato il bambino, accorsero al tempio e lasciarono il neonato ai piedi del maestro zen. Gli dissero: "Sei un ipocrita, questo bambino è tuo! Prenditene cura!". Il maestro zen si limitò a replicare: "Va bene! Va bene!". E diede il bambino ad una donna del villaggio perché lo svezzasse e lo accudisse, facendosi carico lui delle spese. In seguito a questo fatto il maestro perse la propria reputazione, i suoi discepoli lo abbandonarono, nessuno andò più a chiedergli consigli e questo durò per alcuni mesi. Quando la giovane vide tutto ciò, non sopportò questa situazione e raccontò a tutti la verità: il padre del bimbo non era il maestro, ma il figlio del vicino di casa. I suoi genitori e tutti gli abitanti del villaggio, allora, tornarono al tempio e si gettarono ai piedi del maestro zen. Implorarono il suo perdono e chiesero che restituisse loro il bambino. Il maestro restituì il bambino e si limitò a dire: "Va bene! Va bene!". Pensiero della Settimana Mi ritrovo sul colle del Calvario, qualche momento dopo la morte di Gesù, inconsapevole della folla. E' come se fossi solo, gli occhi fissi sul corpo privo di vita, sconfitto in croce... Osservo i pensieri e i sentimenti che nascono in me mentre guardo. Vedo il Crocifisso spogliato di tutto: privato della sua dignità, nudo davanti ad amici e nemici. Privato della sua reputazione. La mia mente ripercorre scene e tempi in cui si parlava bene di lui. Spogliato dal successo. Ricordo gli anni esaltanti in cui i miracoli erano acclamati e sembrava che il regno dei cieli stesse per affermarsi. Spogliato della credibilità, non poteva scendere dalla croce. Non poteva salvare se stesso: doveva essere quindi un impostore. Privato del suo Dio, al quale pensava come a suo padre, che sperava lo avrebbe salvato nell'ora del bisogno. Lo vedo, infine, privato della vita, di quella esistenza qui sulla terra a cui lui, come noi, si aggrappava tenacemente riluttante ad abbandonarla. Mentre fisso quel corpo senza vita capisco a poco a poco di star guardando il simbolo della liberazione totale e suprema. Appunto perché inchiodato alla croce, Gesù diventa vivo e libero. La sua è una parabola di conquista, non di sconfitta. Suscita invidia, non commiserazione. Così ora contemplo la maestà dell'uomo che si è liberato da tutto ciò che ci rende schiavi, che distrugge la nostra felicità. Fissando quella libertà penso tristemente alla mia schiavitù. Sono schiavo dell'opinione pubblica. Penso ai momenti in cui mi sento sottoposto al controllo da ciò che la società dirà e penserà di me. Sono attratto dal successo. Vedo i momenti in cui rifuggo da sfide e rischi, perché odio sbagliare o fallire. Sono reso schiavo dalla necessità del conforto umano: quanto volte sono stato dipendente dall'approvazione e dall'accettazione dei miei amici, dal loro potere di alleviare la mia solitudine; mi vedo schiavo del possesso dei miei amici, attimo in cui ho perso la mia libertà. Penso al farmi schiavo di un mio tipo di Dio. Penso alle volte che cerco di usarlo per rendere sicura, tranquilla e indolore la mia vita. E anche alle volte che sono reso schiavo dalla paura di lui e dalla necessità di assicurarmi contro di lui con riti e superstizioni. Infine penso a come mi aggrappo alla vita, a quanto sono paralizzato da timori di ogni genere, incapace di assumere rischi per paura di perdere gli amici o la reputazione, il successo o la vita o Dio. E così fisso, pieno d'ammirazione, il Re, il Crocifisso che ha conquistato la sua liberazione finale nella sua passione, quando ha combattuto con i suoi attaccamenti, li ha abbandonati e vinti. |