Omelia (22-11-2009) |
mons. Gianfranco Poma |
Dunque, tu sei Re? Con questa domenica concludiamo l'anno liturgico, celebrando la festa di "Nostro Signore Gesu' Cristo re dell'universo". Con la prossima domenica inizieremo il nuovo anno, con l' "Avvento": così la fine aggancia l'inizio e sempre più lasciandoci afferrare dal mistero di Cristo sperimentiamo che nello scorrere del tempo irrompe l'eternità e l'inesauribilità della vita di Dio che gradualmente trasforma noi e l'universo. La festa di Cristo re fu istituita dal Papa Pio XI nel 1921 in un contesto storico e sociale ben preciso, come grido di libertà di fronte ad ogni tipo di assolutismo e di totalitarismo: Cristo solo è il Re dell'universo, ma il suo è "un regno di giustizia, di amore e di pace". Potremmo chiederci se ha ancora senso per noi, all'inizio del nuovo secolo, in un contesto ben diverso, celebrare questa festa, ma se anche solo per un istante ci fermiamo a riflettere sulla nostra esperienza, ci accorgiamo di quanto siamo esposti al rischio di soccombere di fronte a totalitarismi nuovi, più subdoli e raffinati e di quanto abbiamo bisogno di entrare in un rapporto profondo con Cristo Re per poter gustare e vivere intensamente la libertà che egli ci dona. Certo le situazioni nuove in cui ci troviamo, ci spingono a riscoprire il senso della regalità di Cristo stando bene attenti al rischio che possiamo correre di strumentalizzazioni, usando la regalità di Cristo per imporre al mondo le nostre velleità di potenza. Il brano del Vangelo che oggi leggiamo, Giov.18,33-37, è tolto dal racconto della Passione di Gesù, secondo Giovanni la cui intenzione precisa è di presentare gli eventi della Passione come un cerimoniale di inedita investitura regale: Gesù è rivestito di un mantello di porpora, è coronato di spine, viene fatto sedere su una cattedra, la croce è il luogo della elevazione da cui egli "attira tutti gli uomini a sé" (Giov.12,32). Tutto questo non lascia alcun dubbio alla interpretazione radicalmente nuova e paradossale della regalità di Cristo e mette in guardia la Chiesa di ogni tempo dalla pericolosa tentazione di compromettersi con qualsiasi potere politico con l'intenzione di promuovere il regno di Dio. Il Vangelo di Giovanni si ferma a lungo sul processo di Gesù presso Pilato (Giov.18,28-19.16): i commentatori mettono in evidenza la struttura concentrica di questo racconto con al centro l'incoronazione di spine. Tutto si svolge presso il Pretorio e Pilato entra ed esce per parlare alternativamente a Gesù (dentro) e ai capi religiosi (fuori) che non vogliono entrare per non macchiarsi e poter celebrare la Pasqua. L'entrare e uscire di Pilato in realtà rivelano il suo dramma interiore: egli si trova faccia a faccia con Gesù, attratto dentro una relazione personale che lo interpella, al riparo da pressioni psicologiche o sociologiche. L'umanità di Pilato è toccata, messa in crisi da questa persona che gli sta di fronte, spogliata di tutto eppure forte di una potenza capace di risvegliare la verità nascosta nel profondo di ogni uomo. Ma ci vuole coraggio da parte di Pilato per lasciarsi condurre nel profondo di sé dalla disarmata parola di Gesù: eppure solo nella libertà l'uomo si realizza raggiungendo la propria verità. L'uomo Pilato forte di una potenza così fragile è condotto dalla onnipotente fragilità di Gesù sino alla soglia della libertà nella quale intravede la verità nella quale tutto ha senso. Ma anziché affidarsi, Pilato "esce", ha paura, è attaccato al suo potere, ha bisogno del consenso popolare, abdica alla libertà, alla verità di una esistenza autentica, condanna l'innocente, ben sapendo che la vera potenza sta proprio in Colui che egli ha condannato, che gli ha fatto sentire dove sta la verità, la libertà, la vita. In questo contesto si colloca il piccolo brano che oggi leggiamo: siamo all'inizio dell' "interrogatorio" di Pilato, all'interno del Pretorio. Con la fine ironia che lo caratterizza, il Vangelo di Giovanni ci insegna a comprendere come alcuni gesti posti con una certa intenzione, contengano un ricchissimo, imprevisto, significato teologico. Qui, Pilato comincia ad interrogare Gesù sulla sua identità: ma è Gesù che conduce Pilato dentro se stesso e guidandolo ad interiorizzare le sue domande, lo fa entrare in una relazione nuova che può rinnovare radicalmente la sua vita. All'interno del Pretorio, Pilato parla (ma è solo un suono di voce) a Gesù e gli dice: "Tu sei il re dei Giudei?". La relazione di Pilato con Gesù inizia, come un caso giudiziario. Gesù gli risponde (è la prima sorpresa) coinvolgendo Pilato personalmente: "Da te stesso tu dici questo o altri hanno detto a te di me?" Gesù stringe il rapporto "io-tu" e dall'essere semplicemente un caso giudiziario lo trasforma in una relazione personale, coinvolgente: Pilato è costretto a percepirne la risonanza dentro di sé. Chi è Gesù, se Lui è re dei Giudei, è possibile sperimentarlo solo entrando in un rapporto personale, profondo con Lui: a questo Gesù vuole condurre Pilato. Ma Pilato nasconde la sua umanità dietro la sua funzione: "Sono forse io giudeo?" E riconduce la sua relazione con Gesù alla responsabilità attribuitagli dalla gente e dai sommi sacerdoti. Eppure, ancora l'ironia giovannea apre imprevedibilmente orizzonti nuovi: "La tua gente e i sommi sacerdoti hanno consegnato (hanno affidato, hanno donato) te a me. Che cosa hai fatto?" Una denuncia diventa "un dono"e Pilato può conoscere "che cosa ha fatto Gesù": Giovanni ha già avvertito i suoi lettori che "Dio ha tanto amato il mondo da dare il proprio Figlio". E a Pilato che tende a chiudersi, Gesù continua ad aprire il mistero di quella sua potenza che fa paura ai potenti del mondo, di questo suo "regno" che sconvolge i regni della terra, ma di cui tutti hanno un infinito bisogno. "Il mio regno non viene da questo mondo...non viene da quaggiù": non viene dal mondo, dalla nascita, dal potere, dalle ricchezze, dal consenso degli uomini. E aggiunge una frase di estrema importanza per i suoi discepoli di ogni tempo: "Se il mio regno fosse di questo mondo, i miei discepoli avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei". Quante volte nei secoli, e pure oggi, i suoi discepoli hanno pensato di dover combattere per il suo regno, impedendogli invece di compiere "ciò che egli vuole fare", ciò che esprime la sua forza, il dono totale di sé. "Disse dunque a lui Pilato: Dunque re tu sei? Gli rispose Gesù: "Tu dici che sono re". Come sempre accade nel Vangelo, Gesù non si lascia definire da nessun titolo: non rinnega il titolo di re eppure riconosce che Pilato glielo ha attribuito. Se dalla bocca di Pilato è uscita la risposta alla sua domanda iniziale è perché il suo cuore ha cominciato a lasciarsi afferrare da Gesù, che continua ormai a manifestarsi a lui: "Per questo sono stato generato e per questo sono venuto nel mondo, per rendere testimonianza alla verità": Gesù ha reso testimonianza alla verità, con la sua missione, con la sua persona. In realtà, testimonianza, missione, persona, sono la verità "da cui viene il suo regno" e questa verità è il suo essere Figlio del Padre: Gesù è generato dall'Amore del Padre; la sua missione è mostrare al mondo, nella radicale spogliazione di sé, che cosa significhi l'Amore del Padre; la sua testimonianza è l'Amore senza limite, perché questo è l'Amore del Padre. E questo è il regno di Cristo che non è "da questo mondo" ma è "nel mondo", è l'esperienza filiale di Gesù: dove non c'è potere, ingiustizia, egoismo, ma la forza dell'Amore; non ci sono sudditi, funzionari, soldati, non c'è una corte, ma ci sono amici. Il regno di Cristo si va sempre più espandendo nel mondo, in ogni ascolto paziente, in ogni sorriso incoraggiante, in ogni peso condiviso, in ogni sorriso affettuoso e amorevole, in ogni gesto di pace e di riconciliazione. |